È stato più veloce di quanto si pensasse. All’esercito azero sono bastate 24 ore per ottenere la resa dell’enclave armena del Nagorno Karabakh. I combattimenti, che hanno provocato un centinaio di morti, si sono conclusi il 20 settembre, quando i leader dell’enclave hanno accettato le condizioni di Baku. È la fine della repubblica autoproclamata d’Artsakh, nome con cui gli indipendentisti chiamano il Nagorno Karabakh.

Come spiegare un esito così rapido, considerando che la crisi durava da trent’anni e aveva già causato due guerre, nel 1994 e nel 2020? La spiegazione è semplice: gli armeni del Nagorno Karabakh erano rimasti soli. In questa tragedia geopolitica e umana ci sono due attori che hanno ricoperto un ruolo chiave: la repubblica armena e la Russia. Fin dall’inizio dei combattimenti l’Armenia ha fatto sapere che non sarebbe intervenuta, segnando nella sostanza il destino del Nagorno Karabakh.

Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan sapeva che aiutando gli armeni dell’enclave avrebbe corso il rischio che l’Azerbaigian, la cui forza militare è nettamente superiore rispetto a quella armena, allargasse il fronte della guerra, estendendolo al resto dell’Armenia. In quel caso, evidentemente, Pashinyan sarebbe andato incontro a una sconfitta ancora più drammatica. Dunque ha scelto di sacrificare il Nagorno Karabakh per salvare l’Armenia.

Il ruolo del Cremlino
La Russia, per calcolo o per impossibilità, a causa del suo impegno in Ucraina, è rimasta a osservare. La scelta è un segno di debolezza di Mosca in questa regione del Caucaso, in cui si stanno affermando altre potenze, prima tra tutte la Turchia, molto attiva a sostegno di Baku.

La Russia ha una base militare in Armenia e circa duemila uomini nella zona del Nagorno Karabakh in base ai termini di un precedente accordo di pace, ma le truppe russe non sono intervenute. Alla fine, però, hanno facilitato il cessate il fuoco del 20 settembre e la resa dell’enclave.

Sulla decisione dei russi pesa sicuramente una forte ostilità nei confronti di Pashinyan, che ha conquistato il potere nel 2018 sull’onda di una delle “rivoluzioni colorate” che non piacciono al Cremlino. Inoltre, il liberale Pashinyan ha creato rapporti amichevoli con gli occidentali, suscitando la rabbia di Mosca. Il 20 settembre la direttrice dell’emittente televisiva russa Rt, Margarita Simonjan, ha dichiarato che la Russia non ha alcun debito con l’Armenia e ha definito Pashinyan un “Giuda calvo”.

Le conseguenze di questa vittoria azera sono ancora da scrivere. La nuova epoca comincia il 21 settembre, con l’apertura dei negoziati tra il governo di Stepanakert e i rappresentanti di Baku.

All’ordine del giorno ci sono il disarmo dell’enclave e la sua annessione allo stato azero. Ma a quali condizioni? Con quale futuro per gli armeni del Nagorno Karabakh? E con quali garanzie? Sono domande importanti, in un momento in cui all’orizzonte aleggia lo spettro della pulizia etnica.

I cambiamenti geopolitici non si fermano qui. A Erevan la poltrona di Pashinyan traballa a causa della rabbia di una parte dell’opinione pubblica, alimentata dalle reti vicine a Mosca. A questo punto un colpo di mano non è da escludere.

Infine, c’è la questione dell’influenza russa all’interno di questo nuovo rapporto di forze creato dall’intervento dell’esercito azero. Le 24 ore di combattimenti nel Nagorno Karabakh hanno cambiato radicalmente lo scenario nel Caucaso.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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