Gli Stati Uniti di nuovo invischiati in un conflitto in Medio Oriente
Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, aveva scritto un interessante articolo per la rivista statunitense Foreign Affairs in cui decantava i meriti della politica estera del suo “capo”, Joe Biden, in vista della sua ricandidatura per un secondo mandato. In particolare, nell’articolo Sullivan dichiarava che l’amministrazione Biden aveva facilitato “una de-escalation a Gaza e favorito una diplomazia diretta tra le parti dopo anni di assenza”. Questa frase, naturalmente, è stata scritta prima del 7 ottobre. La ritroviamo nel numero di novembre di Foreign Affairs, anche se nella versione online è stata cambiata. Le parole di Sullivan dimostrano come gli americani e in generale gli occidentali avessero accettato di buon grado l’assenza di una soluzione alla questione palestinese, e sollevano forti dubbi su una visione che il consigliere rivendica come un successo, ma che in realtà era soltanto una bomba a orologeria.
Questa cecità evidenzia anche un dilemma americano: gli Stati Uniti ritengono di non doversi più sfiancare per rilanciare un processo di pace che nessuno vuole. D’altronde Washington ha altro a cui pensare, a cominciare dalla rivalità con la Cina, cioè la relazione fondamentale che dà forma al ventunesimo secolo. Il problema è che il Medio Oriente non si lascia ignorare così facilmente. E così gli Stati Uniti, che non avevano più intenzione di ricoprire il ruolo di gendarme del mondo, si ritrovano con due portaerei nel Mediterraneo orientale, bombardieri in Giordania, raid di F-16 contro bersagli iraniani e siriani, intercettazioni di missili lanciati dallo Yemen e diversi feriti in quello che resta del contingente in Iraq. E potrebbe essere solo l’inizio, considerando la minaccia di un incendio regionale, in cui gli Stati Uniti sarebbero inevitabilmente coinvolti.
Fatalità geopolitica, Washington si era appena sbarazzata della sue due “guerre senza fine” degli anni duemila, in Afghanistan e Iraq, ed ecco che si ritrova con due nuovi conflitti in cui ricopre un ruolo di primo piano (seppur indiretto) in Ucraina e Medio Oriente, mentre un terzo fronte è sempre sul punto di aprirsi con la Cina, nelle Filippine o a Taiwan. È come se per l’America fosse impossibile liberarsi della funzione di gendarme (che è il suo marchio di fabbrica da mezzo secolo) e in ogni momento di tensione fosse in discussione la credibilità della potenza americana. Nella ricomposizione sofferta degli equilibri del mondo, gli Stati Uniti figurano come leader grazie al loro status di superpotenza, ma lo fanno con tutte le contraddizioni che ne derivano e che per esempio gli impediscono di essere coerenti in Palestina come lo sono in Ucraina.
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Questo ritorno dell’attivismo militare avviene mentre gli Stati Uniti sono in preda a un caos politico interno che durerà almeno fino alle elezioni del 5 novembre dell’anno prossimo. Il modo in cui i repubblicani hanno eletto lo “speaker” della camera dei rappresentanti è una delle manifestazioni di questa crisi di nervi, così come i dubbi dei democratici sull’opportunità di ricandidare un leader anziano. Finora gli eccessi della vita politica americana non hanno avuto effetto sulla capacità di Washington di eseguire il suo spartito sul palcoscenico mondiale, come abbiamo verificato subito dopo gli eventi del 7 ottobre in Israele. Ma le cose potrebbero cambiare nei prossimi mesi e soprattutto dopo la scadenza elettorale.
Jake Sullivan, che ha intitolato il suo articolo “Le fonti della potenza americana” (The sources of american power), solleva una serie di interrogativi sul ruolo della politica estera in un universo in movimento. Ma ora il resto del mondo ha qualche dubbio legittimo sulle risposte fornite da un’America sempre più incerta.
(Traduzione di Andrea Sparacino)