L’allargamento del conflitto in Medio Oriente è inevitabile?
A un certo punto la parola escalation perde di senso. Dopo tre mesi di bombardamenti incessanti sulla Striscia di Gaza, gli eventi degli ultimi giorni a Damasco e a Beirut, e ieri nel sud dell’Iran, rischiano di far esplodere il Medio Oriente.
Tuttavia, le logiche della guerra sono sempre imprevedibili. Le conseguenze di un’azione possono farsi sentire dopo giorni, settimane o addirittura mesi. Per questo motivo l’allargamento del conflitto non è necessariamente uno scenario già in corso, anche se il peggioramento della situazione è purtroppo evidente.
Ma torniamo a ciò che è successo e ha fatto precipitare le cose. Nel giro di otto giorni Israele ha ucciso a Damasco, in Siria, il più alto in grado tra i Guardiani della rivoluzione, il generale Razi Moussavi, e poi ha eliminato il numero due di Hamas, Saleh al Arouri, a Beirut, in Libano. A questi omicidi mirati bisogna aggiungere il doppio attentato compiuto il 3 gennaio nel sud dell’Iran, con un bilancio di 103 morti e più di cento feriti in una folla che si preparava a onorare la morte di Qassem Soleimani, ucciso nel 2020 dagli statunitensi.
Il 3 gennaio il capo del Mossad, il servizio segreto israeliano, David Barnea, che solitamente non parla molto, ha proposto un parallelo tra il 7 ottobre e l’attentato alle Olimpiadi di Monaco del 1972. Barnea ha promesso che lo stato ebraico “regolerà i conti” con gli autori, i pianificatori e i mandanti del massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre in Israele, aggiungendo che “ci vorrà del tempo, proprio come dopo la strage di Monaco. Ma li troveremo, ovunque si nascondano”. Il momento scelto per questa dichiarazione non è casuale, visto che arriva all’indomani dell’uccisione del numero due di Hamas.
La doppia esplosione del 3 gennaio in Iran sfugge alla strategia degli attacchi mirati e non è chiaro quale sia la ragione di un attentato contro una folla di persone comuni, per quanto sostenitrici del regime. Allo stesso modo, però, sfuggono a questa strategia anche i bombardamenti a tappeto sulla Striscia di Gaza, che provocano migliaia di morti civili, visto che invece l’attacco di martedì a Beirut dimostra che il metodo degli attacchi mirati potrebbe funzionare. Ma forse ci sono strategie diverse che vengono utilizzate contemporaneamente.
Da questi fatti emergono due certezze e due domande. La prima certezza è che Israele non è disponibile a mettere fine alla sua campagna militare, anche se le modalità cambiano a Gaza, come nel resto della regione. Inoltre, è chiaro che lo stato ebraico è pronto ad assumersi tutti i rischi del caso per vendicare il massacro del 7 ottobre, e che accetterebbe anche una guerra regionale, nonostante possa complicare il destino degli ostaggi ancora in mano ad Hamas.
La prima domanda invece è legata alle scelte che faranno l’Iran e Hezbollah, sfidati fin nei loro feudi. Da tre mesi Teheran e l’organizzazione filoiraniana libanese dosano accuratamente il loro coinvolgimento militare per evitare di farsi trascinare in una guerra che potrebbe compromettere il sogno nucleare iraniano.
Il secondo interrogativo riguarda la posizione degli Stati Uniti, sostenitori e al contempo critici della strategia israeliana. Il 3 gennaio Washington ha denunciato con un’insolita fermezza le dichiarazioni incendiarie dei ministri israeliani di estrema destra. Davvero gli statunitensi, che volevano evitare l’escalation regionale, approvano le operazioni degli ultimi giorni?
Ogni nuova tappa di questo continuo gioco al rilancio complica ulteriormente la possibilità di una soluzione politica al conflitto, auspicata dagli Stati Uniti e dall’Europa. Anche questo, inevitabilmente, fa parte dell’equazione.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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