Alla vigilia dell’arrivo del segretario di stato americano Antony Blinken a Tel Aviv, le autorità israeliane hanno moltiplicato le dichiarazioni ai giornali statunitensi, annunciando una nuova fase della guerra a Gaza, con operazioni più mirate. Tuttavia, quando si rivolge all’opinione pubblica israeliana, l’esercito sostiene che si tratta semplicemente di “semantica”.
La spiegazione è semplice: Israele vuole rassicurare l’alleato statunitense. Da settimane, infatti, Washington chiede una strategia che provochi meno vittime civili, senza però ottenere alcun risultato. Ogni giorno da Gaza arrivano immagini sempre più drammatiche.
Il costo politico della guerra comincia a farsi sentire. Qualche giorno fa durante un comizio il presidente Joe Biden è stato animatamente contestato da alcuni ragazzi, che lo hanno accusato di essere “complice” della morte dei civili palestinesi. I manifestanti sono stati allontanati e Biden ha dichiarato di “capire la loro rabbia”, chiedendo di nuovo a Israele di limitare al massimo il numero di vittime. I presenti si sono alzati per applaudirlo. Il conflitto in Medio Oriente sarà inevitabilmente un elemento cruciale di questo anno elettorale.
Durante la sua visita a Doha, in Qatar, dove c’è la sede della rete televisiva Al Jazeera, Blinken ha mostrato il suo dispiacere rispondendo a una domanda su Wael al Dahdouh, giornalista dell’emittente che ha perso la moglie, tre figli e un nipote a causa di due attacchi israeliani. Ma come si fa a restare credibili quando sono proprio gli Stati Uniti a fornire le bombe allo stato ebraico?
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In cosa consiste il presunto nuovo corso di cui parlano gli israeliani? Il ministro della difesa Yoav Gallant ha dichiarato al Wall Street Journal che Israele passerà dalla “fase intensa della guerra” a “diversi tipi di operazioni speciali”. È quello che chiedono gli Stati Uniti da settimane, pur condividendo l’obiettivo israeliano di eliminare militarmente Hamas.
Ma nei fatti non esistono prove di questo cambiamento. Israele ha annunciato di aver raggiunto i suoi obiettivi nel nord della Striscia di Gaza, dove ormai dopo tre mesi di conflitto quasi tutto è stato distrutto. Ma la guerra prosegue con la stessa intensità a sud, in particolare attorno al campo profughi di Khan Yunis, feudo di Hamas.
La difficoltà della missione di Blinken è creata da diversi elementi: il conflitto a Gaza, il rischio di escalation nella regione e il dopoguerra. Nessuno di questi problemi è facilmente risolvibile.
Gli Stati Uniti non vogliono essere trascinati in una guerra totale: è questa la posta in gioco del viaggio attuale del capo della diplomazia americana, preoccupato dall’aumento della tensione nel sud del Libano e nel mar Rosso. Se riuscirà a fermare l’escalation, Blinken avrà raggiunto i suoi obiettivi. Ma il segretario di stato vuole anche mantenere il controllo sui piani per il dopoguerra, ed è qui che cominciano i problemi con Benjamin Netanyahu.
Blinken è sbarcato in Israele dall’Arabia Saudita con un messaggio chiaro: i leader del regno sono pronti a riprendere il processo di normalizzazione dei rapporti con Israele solo a condizione che la pace sia ripristinata e che esista una nuova prospettiva per la soluzione dei due paesi e due stati. Netanyahu non ne vuole sapere.
Blinken, alla quarta visita in Medio Oriente, non riesce a ottenere i risultati sperati. Questo fallimento, sempre più evidente, rappresenta una pessima notizia per Biden.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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