Partiamo da una domanda: quanti di voi sapevano che a marzo del 2023 la Corte internazionale di giustizia (Cig), il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite, aveva intimato a Vladimir Putin di fermare la sua guerra per il rischio di “genocidio”? Io no. D’altronde non ne ha parlato nessuno, e il presidente russo non ha minimamente preso in considerazione la cosa.

Ricordo questo precedente spiacevole per abbassare le attese di chi potrebbe illudersi che il tribunale abbia i mezzi per fermare una guerra. Benjamin Netanyahu, esattamente come Putin, si comporterebbe allo stesso modo, non interromperebbe le operazioni militari anche se la corte glielo ordinasse.

Detto questo, all’Aja, nei Paesi Bassi, dove c’è la sede della Cig, sta succedendo qualcosa di inedito. L’11 e il 12 gennaio si terranno due udienze trasmesse in diretta dall’Onu, in cui Israele, stato fondato nel 1948 dopo il genocidio degli ebrei, sarà formalmente accusato di aver commesso “atti di genocidio”. È uno sviluppo senza precedenti.

Una battaglia con altri mezzi

A condurre questa battaglia giudiziaria è il Sudafrica, paese che ha sconfitto l’apartheid. Già il fatto che queste udienze si svolgano è di per sé un successo per i difensori dei palestinesi e un fallimento per lo stato ebraico, costretto a difendersi da un’accusa infamante.

Gli anglosassoni hanno inventato una parola che spiega il senso di questo approccio: si tratta di lawfare, una combinazione tra law (diritto) e warfare (guerra). Una procedura come quella in corso all’Aja è la prosecuzione della guerra con altri mezzi.

L’obiettivo non è certo quello di modificare la realtà del conflitto, ma quello di ottenere una sentenza che introduca la morale e il diritto nell’equazione. È importante dal punto di vista della battaglia per conquistare l’opinione pubblica, perché permette di imporre o distruggere una narrazione che giustifica l’azione militare.

La storia della giustizia internazionale è lunga e contraddittoria. A Norimberga e a Tokyo i vincitori della seconda guerra mondiale hanno condannato i nemici sconfitti, mentre alla fine della guerra fredda, negli anni novanta, abbiamo ingenuamente creduto all’avvento di un mondo responsabile e abbiamo cambiato logica con la Corte penale internazionale (Cpi), anch’essa con sede all’Aja.

Gli artefici del trattato firmato a Roma nel 1998 pensavano che l’esistenza di un tribunale indipendente avrebbe avuto un effetto dissuasivo: dal presidente serbo Slobodan Milošević al signore della guerra liberiana Charles Taylor, nessuno avrebbe potuto sfuggire alla giustizia. Ma le rivalità tra le potenze, alla fine, hanno avuto la meglio. L’ex presidente sudanese Omar al Bashir non è mai stato portato alla sbarra all’Aja, nonostante un mandato d’arresto internazionale, e lo stesso vale per Putin.

Eppure le iniziative legali non si fermano. A novembre un tribunale francese ha spiccato un mandato d’arresto internazionale a carico di Bashar al Assad, presidente siriano accusato di “complicità in crimini contro l’umanità” per via degli attacchi chimici del 2013. È stata la prima volta in cui un organo di giustizia nazionale ha emesso un mandato contro un capo di stato.

All’Aja Israele sarà costretto a difendere le operazioni nella Striscia di Gaza, e questo fatto di per sé rompe il silenzio dell’impunità. I giuristi non hanno alcun dubbio sul fatto che Hamas abbia commesso crimini di guerra che devono essere giudicati, ma questo non giustifica gli orrori di cui è accusato Israele a Gaza.

Duemila anni fa Cicerone diceva che quando le armi parlano, il diritto tace. Oggi bisogna considerare come un piccolo progresso il contraddittorio che si svolgerà davanti a una corte internazionale mentre è in corso un conflitto.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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