Il braccio di ferro decisivo tra Biden e Netanyahu
È l’inizio di un braccio di ferro decisivo per diversi motivi. Il disaccordo tra il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, ormai alla luce del sole, riguarda il dopoguerra e la soluzione dei due stati, con la creazione di uno stato palestinese.
Di solito tra alleati questo tipo di scontro diplomatico è poco frequente, soprattutto in tempi di guerra. Il 19 gennaio Biden e Netanyahu si sono parlati al telefono per la prima volta da un mese. Secondo il resoconto degli statunitensi il primo ministro israeliano non si sarebbe opposto alla soluzione dei due stati. Ma il giorno successivo, in pieno shabbat, e dunque in un momento in cui di solito si sospende qualsiasi attività politica, Netanyahu ha diffuso una smentita per dire che non è per niente d’accordo su questo progetto.
Il primo ministro ha precisato che Israele intende mantenere la responsabilità sulla sicurezza “a ovest del fiume Giordano”, ovvero su un’area che comprende lo stato di Israele e i territori palestinesi occupati. A queste condizioni è evidente che la nascita di un secondo stato sovrano nella stessa zona sarebbe impossibile.
La posta in gioco è doppia: innanzitutto stiamo assistendo all’avvio delle grandi manovre per arrivare a una soluzione politica quando finalmente la fase militare si sarà conclusa. Ora è il momento di sondare il terreno, come dimostra il piano arabo che propone un riconoscimento di Israele da parte dell’Arabia Saudita in cambio di un impegno irreversibile a favore della creazione di uno stato palestinese.
Ma si tratta anche di una battaglia politica. In Israele Netanyahu si gioca la sua sopravvivenza politica, alla luce sia dell’imminente inchiesta sugli errori militari commessi il 7 ottobre, il giorno dell’attacco di Hamas, sia dei processi per corruzione che lo riguardano.
I contrasti all’interno del governo israeliano sono noti: il ministro della difesa Yoav Gallant vorrebbe prendere il posto di Netanyahu, mentre Benny Gantz, oppositore di centro che fa parte del gabinetto di guerra, non nasconde più le sue critiche.
La settimana scorsa un altro componente del gabinetto di guerra, l’ex capo di stato maggiore Gadi Eisenkot, ha chiesto elezioni anticipate, sottolineando che la fiducia nel governo non esiste più.
In questo contesto, il conflitto con Biden assume una valenza profonda. Negli Stati Uniti il presidente è molto criticato dai suoi stessi elettori a causa dell’appoggio militare e politico accordato a Israele. In vista delle elezioni, Biden deve poter sostenere di avere cercato anche una soluzione dignitosa per i palestinesi.
Netanyahu rappresenta ormai un ostacolo sul cammino di Biden, tanto che probabilmente il primo ministro israeliano sta cercando di prendere tempo confidando in una vittoria di Donald Trump alle presidenziali statunitensi di novembre. In ogni caso la smentita di Netanyahu è un colpo umiliante per Biden e non resterà senza conseguenze.
Gli europei, grandi assenti in questo dibattito, cercano di ritagliarsi un ruolo. Un testo messo a punto dai ministri degli esteri dei 27 paesi dell’Unione avverte Israele del rischio di isolarsi o di ricevere sanzioni in caso di rifiuto alla creazione di uno stato palestinese.
L’Europa non ha lo stesso peso degli Stati Uniti, ma il testo è comunque un altro segnale del fatto che la dichiarazione di Netanyahu non è stata gradita dagli occidentali. Mentre il bilancio a Gaza diventa sempre più grave, c’è un’altra guerra che si combatte dietro le quinte: la guerra per il dopoguerra.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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