È arrivato il momento di riconoscere lo stato palestinese? La domanda può sembrare ingannevole, perché attualmente lo stato palestinese non esiste e la sua nascita è addirittura una delle questioni in gioco nella crisi in corso. Eppure 140 paesi del mondo riconoscono già oggi lo stato palestinese. Tra loro solo pochi fanno parte dell’Unione europea. La Svezia lo aveva fatto quando faceva già parte dell’Unione, mentre gli altri otto (tra cui Bulgaria, Polonia e Romania) l’avevano riconosciuto prima dell’adesione. La questione è tornata con lo scoppio della guerra a Gaza, che ha messo l’Europa di fronte alla sua impotenza e alle sue divisioni.

All’inizio di aprile la Spagna ha rilanciato il dibattito, dichiarando che avrebbe riconosciuto lo stato palestinese entro luglio. Il governo socialista di Pedro Sánchez è uno dei più critici nei confronti della guerra israeliana. La mossa spagnola rafforza la dichiarazione comune diffusa a marzo in cui Spagna, Irlanda, Malta e Slovenia si sono detti pronti, “nell’interesse della pace e della sicurezza”, a riconoscere la Palestina quando sarebbe arrivato “il momento giusto”. Ora Madrid ha preso una posizione chiara: riconoscerà lo stato palestinese entro luglio, con o senza gli altri.

L’Unione europea, insomma, avanza in ordine sparso sul conflitto israelo-palestinese. È una vecchia realtà, che impedisce all’Europa di essere incisiva nonostante sia il primo partner commerciale di Israele e il primo finanziatore dell’Autorità nazionale palestinese. La Germania, per evidenti ragioni storiche, evita di criticare lo stato ebraico, mentre altri paesi mostrano una tendenza filoisraeliana (e favorevole a Netanyahu), come l’Ungheria di Viktor Orbán.

Il risultato è un’Europa che non riesce a far sentire la sua voce, indebolita dalle posizioni molto diverse dei vari governi. I 27, che sono riusciti a trovare un accordo per imporre sanzioni simboliche contro un gruppo di coloni israeliani violenti che operano in Cisgiordania solo dopo che lo avevano fatto gli statunitensi, mancano chiaramente di coraggio. Josep Borrell, spagnolo, alto rappresentante per gli affari esteri dell’Unione, è l’unico a pronunciare parole forti, che però cadono nel vuoto.

La questione del riconoscimento dello stato palestinese in questo momento, prima di un accordo internazionale in merito, rilancia il dibattito. A febbraio Emmanuel Macron ha dichiarato che il riconoscimento non era “un tabù” e che la Francia stava riflettendo sull’argomento. Non è un caso se questa dichiarazione, l’unica finora, sia stata rilasciata in occasione della visita a Parigi del re di Giordania Abdallah II, che chiede un maggiore impegno del governo francese. Resta da capire come, in quale momento e in quale quadro.

Riconoscere lo stato palestinese sarebbe un modo per esprimere un disaccordo chiaro con la strategia israeliana. È l’obiettivo della Spagna e di altri paesi. Il limite, però, è che non cambierà niente: né la realtà di una Palestina senza uno stato e rappresentanza politica legittima, né il corso di una guerra su cui l’Europa non riesce a influire e né il lavoro sul dopoguerra, in gran parte affidato a statunitensi e sauditi, mentre l’Europa sarà semplicemente chiamata ad approvare i loro piani a tempo debito.

Tuttavia, di fronte alla portata della catastrofe umanitaria a Gaza e alla cecità dei leader israeliani, pur nell’assenza di una prospettiva politica credibile a breve termine, forse è arrivato il momento di compiere un gesto verso una soluzione giusta. Il riconoscimento di uno stato palestinese invitato a vivere in pace e sicurezza accanto a uno stato israeliano nel quadro delle frontiere precedenti alla guerra del 1967 potrebbe incarnare questa volontà politica minima, ma opportuna.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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