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Netanyahu alza la posta a Rafah e potrebbe dire no alla tregua

Rafah, 6 maggio 2024. In fuga dai bombardamenti nella parte orientale della città. (Hatem Khaled, Reuters/Contrasto)

È una corsa contro il tempo tra una logica di guerra e la possibilità di una tregua, tra un’escalation potenzialmente disastrosa e la liberazione degli ostaggi con l’arrivo degli aiuti umanitari destinati ai civili di Gaza. La giornata del 6 maggio è stata uno yo-yo emotivo: inizialmente Israele ha inviato i primi segnali della tanto temuta offensiva contro la città sovraffollata di Rafah, con l’ordine di evacuazione per una parte degli oltre un milione di civili ammassati nel sud del territorio palestinese e una serie di bombardamenti intensi. In serata, però, è arrivato l’annuncio dell’accettazione da parte di Hamas dei termini di un cessate il fuoco negoziato faticosamente negli ultimi giorni. La notizia ha suscitato la speranza che le ostilità possano avere fine, ma Israele non ha ancora risposto ritenendo che i conti non tornino.

Davvero nelle condizioni attuali Israele può permettersi di lanciare la sua controffensiva su Rafah, mentre il mondo intero la condanna? Il 6 maggio alle pressioni degli americani, dei francesi e del segretario generale dell’Onu si sono aggiunte quelle dei paesi arabi che qualche giorno fa difendevano Israele contro l’Iran: la Giordania e l’Arabia Saudita. Finora il primo ministro israeliano è rimasto impassibile. Il commento del quotidiano di opposizione Haaretz è significativo: “Netanyahu sperava che Hamas rifiutasse il cessate il fuoco. Quando questo non è accaduto, ha deciso di sabotare l’accordo”. A prescindere dalla validità di questa interpretazione, i fatti dicono che il primo ministro israeliano ha ignorato gli appelli del mondo intero a rinunciare all’offensiva.

I sostenitori di Netanyahu sono convinti che l’esercito debba portare avanti la propria logica di guerra e smantellare Hamas nel suo ultimo rifugio, Rafah. Finora, infatti, Israele non ha ottenuto la vittoria schiacciante che voleva: i principali leader di Hamas restano a piede libero malgrado la distruzione di città e infrastrutture e le decine di migliaia di vittime palestinesi. Ma intanto continuano a crescere le proteste contro la strategia israeliana e il suo costo in termini di vite umane, a cominciare da quelle del presidente americano. Nel corso della guerra Israele ha chiesto agli abitanti del nord e poi del centro della Striscia di Gaza di spostarsi verso sud durante l’offensiva terrestre. Il risultato è che la popolazione di Rafah si è moltiplicata per sei. Parliamo di rifugiati che vivono in condizioni spaventose e che Israele vorrebbe nuovamente trasferire in un’ipotetica zona umanitaria.

Netanyahu non ascolta nessuno. In questo senso il fatto che Biden pagherà certamente un prezzo elettorale enorme a causa di un conflitto su cui sembra non riuscire a influire può sembrare paradossale. Ma si tratta davvero di impotenza? O forse di ipocrisia? Da mesi Washington manifesta il proprio disaccordo, ma al contempo continua a consegnare armi a Israele. Il mese scorso gli Stati Uniti sono intervenuti militarmente in occasione dell’attacco aereo condotto dall’Iran. La stessa frustrazione serpeggia a Parigi, dove il 6 maggio il Quai d’Orsay ha ricordato significativamente che il trasferimento forzato di una popolazione civile “è un crimine di guerra in base al diritto internazionale”.

Netanyahu, tra l’altro, deve affrontare sul fronte interno una parte dell’opinione pubblica che lo accusa di voler sacrificare gli ostaggi che sono ancora nelle mani di Hamas. L’escalation annunciata somiglia a un rilancio della posta in gioco. Netanyahu deve decidere se mantenere la logica di guerra o accettare, sicuramente controvoglia, un cessate il fuoco che finalmente appare a portata di mano.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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