Il 30 maggio, dopo otto mesi di guerra e un numero spaventoso di vittime civili, è stato sconfortante notare la distanza abissale tra il discorso del primo ministro israeliano e l’opinione pubblica di tutto il mondo. Benjamin Netanyahu ha concesso un’intervista al canale televisivo francese Lci, la prima in Francia dopo il 7 ottobre.

Chiaramente nessuno si aspettava da Netanyahu la minima concessione agli appelli per un cessate il fuoco o alle accuse di crimini di guerra che lo riguardano, ma le sue risposte hanno evidenziato tutta la distanza tra un primo ministro che si sente una vittima assediata e il sentimento di orrore che domina nell’opinione pubblica mondiale di fronte a immagini come quelle del bombardamento di Rafah del 27 maggio.

La principale debolezza del discorso del capo del governo israeliano è la mancanza di una sua visione per il dopoguerra. O meglio, Netanyahu una visione ce l’ha: non cambierà niente. Anche se accettassimo la sua versione sulla natura di questo conflitto, sulle vittime civili e sulla sua lotta contro l’antisemitismo, l’assenza di un qualsiasi accenno al futuro dei palestinesi resterebbe comunque inammissibile.

Netanyahu rifiuta qualsiasi prospettiva di uno stato palestinese, proprio mentre tre paesi europei hanno appena compiuto il passo del riconoscimento ed esiste un forte consenso internazionale per la soluzione dei due stati. Il premier israeliano immagina solo un’autonomia temporanea per i palestinesi, ovvero un’occupazione eterna nella più completa illegalità. Come può Netanyahu sperare che una posizione del genere sia accettabile per milioni di palestinesi? Come può Israele sperare di raggiungere la sicurezza a cui aspira se non ci sarà mai una giustizia per l’altro popolo che vive in quel territorio?

Nel momento in cui un leader israeliano ha lasciato intendere che la guerra potrebbe durare ancora sette mesi, ovvero fino alle elezioni statunitensi, Netanyahu ha presentato un piano per Gaza che contraddice palesemente il suo alleato americano. Il primo ministro vuole mantenere il controllo della sicurezza di Gaza e, parole sue, avere “la possibilità di entrarci in qualsiasi momento” in caso di bisogno.

È una linea tanto dura quanto prevedibile. D’altronde Netanyahu è in difficoltà su tutti i fronti e reagisce come sua abitudine, attaccando. Oggi il premier non può rivendicare una vittoria a Gaza nonostante otto mesi di guerra, è accusato dalla giustizia internazionale per la sua strategia e le vittime civili, e infine, sul piano interno, il suo rivale politico Benny Gantz ha appena presentato una mozione di sfiducia per forzare le elezioni anticipate.

Davanti al rischio di diventare un paria, Netanyahu attacca a testa bassa denunciando l’antisemitismo, che è effettivamente un fenomeno in crescita ma che in questo caso è utilizzato contro i giudici internazionali (che non lo meritano) e in generale contro tutti coloro che criticano la guerra condotta a Gaza.

Parlando alla tv francese, Netanyahu ha cercato di coinvolgere il pubblico europeo nella sua guerra, affermando che la vittoria di Israele sarà “la nostra vittoria”. Non sono sicuro che gli spettatori francesi abbiano condiviso questo sentimento. C’è una parola in ebraico che riassume bene l’atteggiamento del primo ministro: chutzpah, faccia tosta.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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