Putin in Mongolia mette in crisi la giustizia internazionale
Nessuno pensava davvero che Vladimir Putin sarebbe stato arrestato al suo arrivo a Ulan Bator il 3 settembre. Eppure la Mongolia è uno dei paesi firmatari dello statuto di Roma che ha istituito la Corte penale internazionale (Cpi), dunque le autorità avrebbero dovuto eseguire il mandato d’arresto spiccato l’anno scorso dal tribunale nei confronti del presidente russo.
Invece, al posto delle manette, Putin ha ricevuto un’accoglienza in pompa magna con tanto di guardia a cavallo, come da tradizione in Mongolia. Il paese, che in passato ha fatto parte della sfera d’influenza sovietica, ha una diplomazia legata alla propria geografia. Il territorio mongolo si trova infatti tra la Russia e la Cina, e il governo si preoccupa allo stesso tempo di non creare conflitti e di non farsi sottomettere da uno dei due vicini ingombranti.
E pazienza se la giustizia internazionale dovrà attendere. La Mongolia è il primo paese firmatario del trattato della Cpi visitato da Putin dopo il mandato d’arresto spiccato contro di lui. L’anno scorso il presidente russo aveva rinunciato a partecipare a un vertice dei Brics, l’organizzazione delle potenze emergenti, perché si teneva a Johannesburg. Il Sudafrica, uno dei firmatari del trattato, avrebbe incontrato grosse difficoltà a sottrarsi ai suoi obblighi legali.
Quello che è successo in Mongolia è la prova che la Corte penale internazionale non ha mezzi all’altezza delle sue funzioni, soprattutto in una fase in cui l’ordine mondiale è messo in discussione. Il tribunale è stato ideato nel 1998, in un momento di grande ottimismo sulla scia della caduta di Berlino. Le guerre in Jugoslavia e il genocidio ruandese avevano convinto la comunità internazionale che fosse necessario creare un’istituzione capace di giudicare i tiranni e dissuadere i potenziali despoti.
Ma il meccanismo è apparso difettoso fin dalle origini, perché paesi come gli Stati Uniti, la Russia, la Cina o Israele non hanno firmato il trattato di Roma. La giustizia, dunque, valeva e vale solo per gli altri, i “piccoli”. Davvero possiamo considerare morta l’idea di una giustizia internazionale? Non ancora, perché pur nella sua inefficacia – chiara in Mongolia – la Cpi ha quantomeno il merito di esistere.
Il mandato d’arresto nei confronti di Putin non impedisce al presidente russo di portare avanti la sua guerra in Ucraina né di spostarsi all’estero, ma resta una spada di Damocle che potrà pesare nel momento in cui si proverà a trovare una soluzione al conflitto.
Allo stesso modo le decisioni della Corte internazionale di giustizia (Cig) – un organo delle Nazioni Unite – contro l’occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele non spingono certo i coloni a lasciare la Cisgiordania, ma affermano in modo inequivocabile un diritto e anche in questo caso potrebbero avere un ruolo in una fase di negoziato. Siamo ancora in attesa delle condanne da parte della Cpi di Benjamin Netanyahu e del capo di Hamas, Yahya Sinwar, come annunciato dal procuratore Karim Khan. Un altro gesto simbolico ma non irrilevante per l’opinione pubblica.
Evidentemente siamo lontani dalle speranze dei padri fondatori della Cpi, che volevano dare torto a Cicerone, convinto che “quando le armi parlano, il diritto tace”. Tuttavia, la lunga marcia della giustizia internazionale non è ancora terminata, e attende giorni migliori.
(Traduzione di Andrea Sparacino)