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Gli Stati Uniti sembrano impotenti di fronte al caos mediorientale

Bombardamenti israeliani a Jabal Al-Rehan nel sud del Libano, 21 settembre 2024. (Rabih Daher, Afp)

È uno dei misteri dello scontro che si è aperto quasi un anno fa: gli Stati Uniti, prima potenza mondiale e punto di riferimento in Medio Oriente, continuano a sembrare impotenti. Ne abbiamo avuto l’ennesima dimostrazione con l’escalation di violenza della settimana scorsa tra Israele ed Hezbollah: Washington non vuole che la guerra si allarghi fino a coinvolgere il Libano, ma la situazione continua a precipitare inesorabilmente e minaccia di trascinare la regione nel caos.

Questa situazione è la stessa da mesi. Joe Biden ha criticato apertamente il numero di vittime civili nella guerra israeliana a Gaza, senza che però i metodi o il bilancio siano cambiati minimamente. Gli Stati Uniti negoziano da tempo un cessate il fuoco per la Striscia, un miraggio che si allontana ogni volta che sembra avvicinarsi. Quando Israele ha fatto esplodere i cercapersone in Libano, il segretario di stato Antony Blinken si trovava al Cairo, in Egitto, per cercare di trovare una soluzione al conflitto, ma a quel punto è ripartito senza passare da Israele.

In seguito l’entourage di Biden ha ribadito che il presidente non vuole un’escalation in Libano, e che non la ritiene nell’interesse di Israele. Ma la situazione sul campo racconta una storia diversa: cinquanta morti nei bombardamenti del 20 settembre in un quartiere di Beirut, in cui sono morti rappresentanti di primo piano del movimento filoiraniano. Lo scontro è andato avanti per tutto il fine settimana, tra lanci di razzi da parte di Hezbollah e risposte israeliane.

Parte della spiegazione di questa spaccatura risiede nel rapporto complesso tra Biden e Benjamin Netanyahu: i due leader si conoscono da decenni e ormai non nutrono la minima fiducia reciproca. Il primo ministro israeliano, tra l’altro, non ha mai nascosto la sua preferenza per Donald Trump e i repubblicani.

Ma il presidente americano è un democratico all’antica, legato alla difesa di Israele a ogni costo e appartenente a una generazione segnata dalla memoria della Shoah. Per questo motivo non ha mai messo alle strette Netanyahu e la sua coalizione di estrema destra, nemmeno quando ne ha criticato pubblicamente l’azione.

La situazione è ancora più delicata alla luce del contesto elettorale negli Stati Uniti. Washington vuole evitare di compiere qualsiasi gesto che possa essere strumentalizzato per danneggiare Kamala Harris nella sfida contro Trump. Il risultato è che l’influenza americana è compromessa. Gli Stati Uniti non vogliono una guerra che li coinvolgerebbe a prescindere dalla loro volontà a causa del ruolo regionale dell’Iran. A 45 giorni dalle elezioni presidenziali, un aumento della tensione che costringa le forze americane a intervenire è l’ultima cosa che vorrebbe la Casa Bianca.

Ma oggi gli americani danno la sensazione di farsi imporre la guida degli eventi da Netanyahu, determinato a portare avanti la propria agenda, e sono messi davanti al fatto compiuto di una strategia israeliana che consiste, tenetevi forte, nell’ottenere “una de-escalation attraverso un’escalation”. In altre parole, fare la guerra per evitare la guerra.

È probabile che l’incapacità degli Stati Uniti di influire sull’evoluzione del conflitto (mentre il paese continua a consegnare armi e a proteggere diplomaticamente Israele) andrà avanti fino al 5 novembre. Il problema, come sanno benissimo sia gli israeliani sia gli statunitensi, è che prima di allora potrebbe accadere di tutto, compreso lo scoppio di una vera e propria guerra regionale.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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