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Perché la diplomazia non riesce a fermare le guerre in Medio Oriente

Un’auto distrutta da un attacco libanese a Haifa, in Israele, il 7 ottobre 2024. (Mati Milstein, NurPhoto/Getty Images)

Può sembrare strano interessarsi alla diplomazia mentre la guerra continua a imperversare. In Libano come nella Striscia di Gaza, l’intensità dei bombardamenti non diminuisce, e intanto l’Iran aspetta un attacco Israeliano che potrebbe arrivare in qualsiasi momento. Eppure la diplomazia non si ferma neanche durante i combattimenti, anche se si scontra con le logiche di guerra che sono più difficili da fermare quando uno dei belligeranti non vuole assolutamente deporre le armi.

In questo momento sul tavolo ci sono ben due proposte per un cessate il fuoco che aspettano solo di essere accettate. La prima, negoziata per mesi, riguarda la Striscia di Gaza e prevede la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas in cambio del rilascio dei prigionieri palestinesi e dell’ingresso degli aiuti umanitari per i due milioni di palestinesi che vivono nel territorio devastato da un anno di guerra. Ogni volta che sembra sul punto di concretizzarsi, la trattativa si interrompe per mancanza di pressioni, così la prospettiva di una fine dei combattimenti si allontana tragicamente.

La seconda proposta è più recente e prevede un cessate il fuoco in Libano. In questo caso il fallimento è provocato dalle tensioni tra alleati. Quando il presidente francese Emmanuel Macron ha chiesto ai paesi che consegnano armi a Israele di stabilire un embargo, si rivolgeva soprattutto agli Stati Uniti. Certo, a reagire in modo scomposto è stato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che ha attaccato violentemente il presidente francese. Ma è evidente che le parole di Macron sono nate dal fallimento del negoziato per un cessate il fuoco in Libano.

L’iniziativa era stata avviata dalla diplomazia statunitense. La Francia l’aveva sostenuta perché ha (o aveva) un canale aperto con Hezbollah a Beirut, diversamente dagli Stati Uniti. Il testo franco-americano ha ottenuto l’assenso degli israeliani e di Hezbollah. Tuttavia, poco prima che fosse annunciato, Netanyahu ha pronunciato il suo discorso incendiario alle Nazioni Unite, seguito dal bombardamento di Beirut che ha ucciso Hassan Nasrallah, capo di Hezbollah, il 27 settembre. La Francia non ha apprezzato il fatto che Washington si sia complimentata con Israele senza tenere conto delle conseguenze diplomatiche.

Ormai da un anno la diplomazia non ottiene successi. Anche se i viaggi nella regione del segretario di stato americano Antony Blinken o dal capo della Cia William Burns non si contano più, i risultati sono inesistenti.

La frase tardiva di Macron sull’assenza di coerenza tra gli appelli al cessate il fuoco e la vendita di armi non cambierà la situazione, soprattutto considerando che manca meno di un mese alle presidenziali statunitensi, in cui il tema del Medio Oriente potrebbe avere un ruolo importante considerando che si tratta di una sfida testa a testa.

Il paradosso è che oggi la diplomazia americana, più che di fermare le ostilità, si preoccupa di impedire che Israele commetta l’irreparabile in Iran, ovvero bombardare le strutture nucleari e petrolifere del paese. Washington lascia campo libero a Netanyahu limitandosi a scongiurare l’allargamento del conflitto. Un giorno qualcuno scriverà la storia dell’azione diplomatica nella crisi nata con l’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre, raccontando il doppio gioco e le macchinazioni in un momento in cui i civili venivano massacrati. Nessuno ne uscirà bene.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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