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Le elezioni statunitensi rivelano le fragilità e le divisioni europee

Il primo ministro polacco Donald Tusk durante un incontro con il segretario di stato statunitense Antony Blinken a Varsavia, il 12 settembre 2024. (Aleksandra Szmigiel, Reuters/Contrasto)

Oggi, come capita regolarmente ogni quattro anni, gli europei aspettano con ansia il verdetto delle urne sull’altra sponda dell’Atlantico. Per i paesi dell’Unione europea la posta in gioco è enorme, soprattutto considerando che uno dei due candidati, Donald Trump, non ha mai fatto mistero della sua ostilità nei confronti del vecchio continente.

Ma se gli europei pensano di tirare un sospiro di sollievo in caso di vittoria di Kamala Harris, probabilmente si illudono. Harris garantirebbe relazioni meno conflittuali e ha già promesso che rispetterebbe le alleanze, ma resta il fatto che l’Europa non sarà al centro della visione strategica statunitense, a prescindere da chi vincerà il 5 novembre. I tempi sono ormai cambiati.

È in questo senso che bisogna interpretare una frase significativa contenuta in un tweet di Donald Tusk, primo ministro polacco e uno dei leader europei più influenti: “L’ora della dipendenza esterna nel quadro geopolitico è finita”. Con queste parole Tusk ha voluto ribadire che l’Europa non può più permettersi di affidare la propria sicurezza agli Stati Uniti e dunque alle incertezze di ogni elezione presidenziale. È un concetto semplice ma anche fondato.

Attualmente la Polonia è il paese europeo che si impegna maggiormente per rafforzare la propria difesa, a cui dedica il 4 per cento del Pil, il doppio rispetto alla Francia. Questa scelta si spiega con la storia polacca e soprattutto con la sua geografia, che oggi espone lo stato alle conseguenze della guerra scatenata in Ucraina dalla Russia.

Ex presidente del Consiglio europeo, Tusk raccoglie il testimone della battaglia per la sovranità europea da Francia e Germania, che nel frattempo sono in preda alle rispettive crisi di nervi per quanto riguarda la politica interna. L’Unione ha compiuto diversi passi avanti dopo il brutale risveglio dell’invasione russa a febbraio del 2022, ma resta lontana dall’obiettivo, e soprattutto non è ancora unita.

Abbiamo avuto un assaggio di queste spaccature la settimana scorsa, dopo le elezioni georgiane vinte dalle forze filorusse: i 27 paesi dell’Unione non sono riusciti a mettersi d’accordo su un comunicato comune e solo tredici hanno criticato il risultato del voto.

Come se non bastasse, il primo ministro ungherese Viktor Orbán si è precipitato a Tbilisi per congratularsi con gli alleati di Mosca, proprio mentre Budapest ricopre la presidenza di turno dell’Unione. Parliamo dello stesso Orbán che è diventato l’interlocutore preferito di Trump in Europa, dunque è facile immaginare cosa accadrebbe se il candidato repubblicano vincesse le elezioni statunitensi.

È sconfortante continuare ad aspettare un sussulto europeo davanti all’aumento dei rischi, dalla minaccia russa all’incertezza statunitense sul sostegno all’Ucraina, fino al ritardo competitivo evidenziato dal rapporto Draghi. Ci piacerebbe credere a Donald Tusk quando dichiara “finita l’era della dipendenza esterna”, ma il voto negli Stati Uniti, a prescindere dal risultato, fa riemergere tutte le fragilità e le divisioni dell’Europa. Sempre in attesa di un’ipotetica svolta.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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