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Pechino non sa se tifare per Trump o per Harris

Guangzhou, Cina, 6 aprile 2024. Durante l’incontro tra Janet Yellen, segretaria al tesoro statunitense, e He Lifeng, vice primo ministro cinese. (Pedro Pardo, Afp)

Non esiste un angolo del pianeta che non presti attenzione alle elezioni statunitensi che si svolgono oggi, 5 novembre. A Pechino, però, fanno finta di non interessarsi. La Cina incarna ormai “l’altra” superpotenza, dunque non vuole dare l’impressione di dipendere da un voto all’estero. Come invece fanno i modesti europei, verrebbe da aggiungere…

Ma in realtà il dibattito imperversa anche in Cina, sui social network e in alcuni spazi autorizzati. I cinesi cercano di capire se per il loro paese sia meglio che vinca Trump o Harris.

I commentatori ufficiali sono fatalisti: l’ostilità nei confronti della Cina è l’unico punto in comune tra i repubblicani e i democratici americani. Il risultato, dicono, non farà grande differenza dalla prospettiva di Pechino. Un po’ come scegliere tra la peste e il colera.

Questa analisi ha un fondo di verità, perché Joe Biden ha effettivamente proseguito e amplificato la politica di contenimento della Cina messa in atto da Donald Trump durante il suo unico mandato. Ma le cose non sono così semplici.

Anche se le differenze non sono nette come sull’Ucraina o sul rapporto con Putin, gli stili diametralmente opposti dei due candidati producono differenze che potranno avere un peso quando si tratterà di definire il rapporto futuro tra i due grandi rivali del ventunesimo secolo.

Vista da Pechino, Kamala Harris incarna la continuità e la prevedibilità, cioè la volontà di mantenere un’intensa competizione e di costruire un cordone sanitario attorno alla Cina rispetto all’accesso alla tecnologia occidentale. Pochi giorni fa la Casa Bianca ha pubblicato un rapporto sull’intelligenza artificiale spiegando chiaramente che bisogna impedire alla Cina di superare gli Stati Uniti in questo settore.

Trump, dal canto suo, ha scoperto le sue carte promettendo dazi doganali massicci sui prodotti cinesi, che potrebbero avere serie conseguenze sull’economia di Pechino, che fatica a ripartire. Ma al contempo la Cina giudica Trump “pragmatico”, una espressione più elegante di “disposto a mercanteggiare”, cioè disponibile a trovare un accordo, un deal, cosa che il candidato repubblicano considera la sua specialità.

I cinesi sono molto attenti alle parole pronunciate da Trump su Taiwan. L’ex presidente ha accusato diverse volte l’isola rivendicata da Pechino di avere “rubato i semiconduttori” agli Stati Uniti. Oltre al fatto che si tratta di una falsità, queste dichiarazioni sottolineano l’atteggiamento di Trump, totalmente privo di valori morali. Se Taiwan ha rubato i semiconduttori, possiamo davvero credere che gli Stati Uniti invieranno i loro soldati per difendere la democrazia dell’isola in caso di attacco cinese?

Questa ambiguità potrebbe avere effetti importanti sulla difesa dell’isola, anche se l’ex presidente taiwanese Tsai Ing-wen (che di recente ho incontrato personalmente a Parigi) ritiene che al congresso statunitense il sostegno alla difesa di Taiwan sia abbastanza esteso e bipartisan da neutralizzare qualsiasi differenza di personalità tra i vari inquilini della Casa Bianca.
Ciò non toglie che in Cina esista una corrente di pensiero che preferirebbe una vittoria di Trump nella convinzione che il repubblicano sarebbe più incline a stringere accordi. Un uomo d’affari cinese mi ha confidato che Xi Jinping e Vladimir Putin sono convinti di poter impressionare Trump, che rispetta gli “uomini forti”. Le analisi, a volte, possono seguire traiettorie complesse, a Pechino come altrove.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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