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Vincitori e vinti in Siria

I festeggiamenti a Damasco per la caduta di Assad, 8 dicembre 2024. (Omar Sanadiki, Ap/LaPresse)

Evidentemente c’è una dimensione geopolitica in un evento cruciale come la caduta di un regime dinastico al potere da più di mezzo secolo in una regione instabile. Prima di tutto, però, dobbiamo soffermarci sull’esplosione di gioia dei siriani, sia di quelli che ancora vivono nel paese sia dei milioni di espatriati.

Le immagini che arrivano dalla Siria sono tipiche dell’uscita di scena di un tiranno: statue abbattute, prigioni svuotate e palazzi aperti a tutti. Considerando la natura del regime in questione, la gioia appare assolutamente legittima, a prescindere da quali saranno gli sviluppi.

Ma siamo anche davanti a un sisma geopolitico che non va assolutamente minimizzato. Il regime di Bashar al Assad si era salvato nel 2015 grazie all’intervento della Russia, dell’Iran e di Hezbollah, ma oggi gli stessi attori non sono stati in grado di ripetersi. L’esercito siriano si è ritirato senza combattere.

È proprio in Russia che Assad e la sua famiglia si sono rifugiati. Mosca dovrà gestire la perdita di un alleato fedele fin dall’epoca sovietica, mentre l’Iran ha incassato il colpo del saccheggio della sua ambasciata a Damasco e si ritrova a dover prendere atto del fallimento di investimenti politici decennali.

Per Vladimir Putin si tratta di una pessima notizia in un momento in cui si apre una partita delicata con la futura amministrazione Trump sulla guerra in Ucraina. Un primo atto in questo senso è andato in scena il 7 dicembre a Parigi, con l’incontro fra Trump e Zelenskyj. Putin ama far credere di essere in controllo degli sviluppi nell’Europa dell’est, in Africa e Medio Oriente, ma la realtà è ben diversa.

Per l’Iran la situazione è ancora più grave. Da decenni Teheran lavora per costruire un asse della resistenza che va dagli huthi nello Yemen ad Hamas in Palestina, passando per Hezbollah e la Siria di Assad. Già indebolito da Israele, Hezbollah vede sparire la sua rotta di approvvigionamento di armi attraverso la Siria e sarà sicuramente ridimensionato sulla scena interna.

Quanto al regime dei mullah, come tutti i sistemi autoritari non può osservare la rapidità con cui la Siria si è rivoltata senza chiedersi se la stessa dinamica possa ripresentarsi all’interno dei suoi confini.

Sul fronte opposto, la Turchia è sicuramente tra i vincitori del momento, perché sostiene attivamente alcune delle fazioni che hanno detronizzato Assad. Ankara ha approfittato immediatamente dell’occasione lanciando un gruppo armato sotto il suo controllo in direzione delle zone ancora in mano ai curdi, nel nordest della Siria. Non bisogna dimenticare che la Turchia non frena mai la sua ostilità contro i curdi siriani, alimentata dai loro legami con i curdi turchi del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk).

La Siria dovrà affrontare sfide proibitive, a cominciare dal rapporto con le potenze straniere: l’8 dicembre Israele ha assunto il controllo delle postazioni siriane sul monte Hermon per mettere in sicurezza la frontiera, mentre la Turchia non fa mistero delle sue mire.

Allo stesso tempo il paese dovrà fare attenzione al rischio dell’esplosione della rivalità tra le fazioni (gli islamisti dell’Hayat tahrir al Sham di Mohammed al Jolani sono dominanti ma non egemoni) e di un passaggio da un autoritarismo all’altro, com’è successo più volte nel corso della storia.

Al momento niente è ancora definito. La speranza è che la Siria riesca a lasciarsi alle spalle lo “stato di barbarie” di cui parlava il ricercatore francese Michel Seurat, assassinato nel 1986 da Hezbollah in Libano. Nessuno può uscire indenne da mezzo secolo di dittatura feroce.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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