Vi ricordate di quando Donald Trump si vantava di poter risolvere la guerra in Ucraina nell’arco di 24 ore? La realtà si è rivelata più complicata degli slogan elettorali, perfino per lui.

Eppure l’elezione del miliardario, poco incline a confermare il sostegno all’Ucraina, ha innegabilmente rimescolato le carte. Kiev ha capito che rischia di essere abbandonata al suo destino, come dimostra il tweet volgare con cui il figlio del presidente eletto statunitense ha paragonato gli aiuti a un paese aggredito a una “paghetta” per Volodymyr Zelenskyj.

Gli europei hanno fatto presente alla futura amministrazione statunitense tutte le implicazioni che una vittoria di Putin in Ucraina avrebbe per la credibilità della leadership americana. L’apice di questa manovra di convincimento è stato l’incontro, il 6 dicembre scorso nell’ufficio del presidente francese Emmanuel Macron, fra Trump e Zelenskyj, entrambi a Parigi per la riapertura della cattedrale di Notre-Dame.

Anche in assenza di annunci rumorosi, i termini dell’equazione sembrano cambiare. Sotto l’effetto Trump siamo passati dalla questione dei territori a quella della sicurezza. Finora l’Ucraina aveva posto il ripristino della sovranità piena come condizione imprescindibile per mettere fine alla guerra, ma il rapporto di forze sul campo, diventato favorevole alla Russia, ha reso questa ipotesi se non impossibile, sicuramente lontana e costosa in termini di vite umane e sostegno economico occidentale.

Oggi l’Ucraina sa che dovrà sacrificare i territori conquistati dalla Russia, in attesa di giorni migliori. Al momento si ipotizza uno scenario tedesco, in riferimento alle due Germanie che sono rimaste separate per decenni ma che alla fine si sono riunite.

Per compiere questo sacrificio, che sarà duro da accettare dopo tutti i morti provocati da questa guerra, l’Ucraina chiede reali garanzie di sicurezza, in modo da assicurarsi che il conflitto non riprenda non appena l’occidente volterà la spalle.

A cosa potrebbero somigliare queste garanzie? Di sicuro non a quello che è stato fatto finora. Nel 1994 era stato firmato a Budapest, in Ungheria, un memorandum sostenuto dai membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per garantire la protezione dell’Ucraina contro qualsiasi minaccia militare non provocata. In cambio l’Ucraina rinunciava all’arsenale nucleare presente sul suo territorio al momento della dissoluzione dell’Unione Sovietica. Mi ricordo di aver visitato Kiev con Roland Dumas, ministro degli esteri francese dell’epoca, che aveva il compito di convincere gli ucraini ad accettare. Oggi sappiamo che quel memorandum si è rivelato inutile.

L’adesione dell’Ucraina alla Nato sarebbe la garanzia suprema, grazie all’articolo 5 che assicura la solidarietà automatica in caso di aggressione. Ma Putin non lo accetterà mai e Trump è dello stesso avviso. Allora si fa strada una terza via: il dislocamento in Ucraina di truppe dei paesi Nato che agiscano indipendentemente e offrano una garanzia concreta di difesa della sovranità del paese.

Era questo l’obiettivo dei colloqui avuti il 12 dicembre a Varsavia da Macron. Se una simile ipotesi dovesse realizzarsi Francia e Polonia sarebbero tra i principali paesi a inviare i loro soldati. Questa soluzione è ancora lontana, ma il fatto che i leader europei ne parlino è già un passo avanti e offre agli ucraini una prospettiva un po’ più incoraggiante di una pace negoziata in 24 ore, che non risolverebbe nulla.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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