Donald Trump ne aveva fatto un punto cardine della sua campagna elettorale: durante il suo primo mandato era stato il presidente che non aveva scatenato nuove guerre. In occasione della cerimonia d’insediamento, il 20 gennaio scorso, aveva addirittura dichiarato: “Misureremo il nostro successo non solo dalle battaglie che vinceremo, ma anche dalle guerre che scongiureremo e forse, ancora più importante, dalle guerre che non cominceremo”.

Da allora sono passati appena due mesi e Trump ha ordinato l’offensiva militare più importante del suo secondo mandato: una serie di bombardamenti a tappeto nelle zone controllate dai ribelli huthi, nello Yemen. Attraverso questa offensiva, il presidente statunitense vuole minacciare esplicitamente i loro protettori, che si trovano a Teheran.

Dopo l’attacco del 7 ottobre 2023 di Hamas contro Israele e le guerre a Gaza e in Libano, gli huthi, sostenuti dall’Iran, hanno aperto un fronte nel mar Rosso, costringendo parte del traffico marittimo a circumnavigare l’Africa in mancanza di un accesso sicuro al canale di Suez.

Gli Stati Uniti, il Regno Unito e Israele hanno bombardato a più riprese le postazioni dei ribelli yemeniti, senza però neutralizzare la minaccia. La situazione si è stabilizzata con il cessate il fuoco in Libano e poi con quello a Gaza, ma gli huthi hanno ripreso i loro attacchi quando Israele ha imposto un nuovo blocco degli aiuti umanitari nella Striscia, una decina di giorni fa. Ed è a questo punto che è entrato in scena Trump.

Il presidente statunitense ha ordinato un attacco che ha provocato enormi danni nel porto di Al Hudayda e distrutto una centrale elettrica nella capitale Sanaa. Secondo il bilancio diffuso dai ribelli, i morti sono stati più di cinquanta. Trump ha accompagnato il bombardamento con un avvertimento sul suo social network Truth: “Ogni nuovo lancio di missili da parte degli huthi sarà considerato come un attacco da parte dell’Iran, che ne sarà responsabile e ne pagherà le conseguenze”. Il messaggio è arrivato dopo un lancio di missili da parte dei ribelli in direzione della portaerei statunitense Harry Truman.

Al di là dell’enfasi abituale del presidente statunitense, queste minacce si stanno intensificando. Finora ogni fronte era stato trattato separatamente, ma adesso Trump giudica Teheran responsabile di quello che fanno i suoi proxy, ovvero i componenti del cosiddetto asse della resistenza, considerevolmente indebolito negli ultimi 18 mesi di guerra.

Ma il presidente statunitense è davvero pronto a colpire l’Iran? Nella sua strategia di comunicazione ci sono sempre messaggi nascosti. Parallelamente ai bombardamenti, dieci giorni fa Trump ha scritto alla guida suprema dell’Iran Ali Khamenei per proporgli un negoziato sul nucleare.

Per spingere Teheran verso il compromesso, quindi, Trump ha offerto da un lato una trattativa e dall’altro sta esercitando una pressione molto forte, con un’opzione militare che gli attacchi agli huthi vogliono rendere credibile.

Washington ritiene che l’Iran sia molto vicino al momento in cui potrà costruire una bomba atomica. Trump vuole evitare a ogni costo che il paese diventi una potenza nucleare durante il suo mandato, perché si tratterebbe di un fallimento personale.

D’altro canto, una guerra con Teheran avrebbe conseguenze incalcolabili, che i paesi vicini agli Stati Uniti come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti vorrebbero senz’altro evitare, ma che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è prontissimo ad accettare.

Con lo Yemen Trump si trova davanti a una scelta molto importante. Il comandante in capo che non amava la guerra ne ha appena scatenata una.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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