La settimana folle che abbiamo vissuto a causa di Donald Trump è stata ricca di insegnamenti. Il primo è evidente: il 47esimo presidente degli Stati Uniti non è invulnerabile. Trump ha gonfiato il petto e ha giurato di essere il genio del deal, arrivando ad affermare che il mondo intero gli “lecca il …” (vi risparmio il seguito).
E invece, dopo appena un giorno da quella dichiarazione, è stato costretto a fare marcia indietro sui dazi. Il crollo dei mercati e soprattutto l’aumento dei tassi d’interesse sul debito statunitense, i famosi buoni del tesoro che Cina e Giappone posseggono in grandi quantità, hanno avuto la meglio sulla sua ostinazione.
A questo punto, solo i fedelissimi di Trump accetteranno la versione secondo cui il presidente aveva previsto e organizzato tutto, compresa la ritirata precipitosa. La lezione di sicuro non è sfuggita a tutti coloro che negli ultimi due mesi avevano creduto di avere davanti un rullo compressore quasi inarrestabile.
La vicenda è tanto più significativa se consideriamo che negli Stati Uniti sta emergendo una resistenza a Trump in varie forme, con le prime manifestazioni, i contrasti nell’entourage presidenziale e gli insulti reciproci tra Elon Musk e il consulente per il commercio Peter Navarro. E ora i repubblicani temono un “bagno di sangue” (l’espressione è del senatore del Texas Ted Cruz) alle elezioni di metà mandato dell’anno prossimo. In sostanza, il presidente statunitense comincia a somigliare a una “tigre di carta”, come avrebbe detto Mao Zedong.
La seconda lezione riguarda la Cina. Per come stanno le cose, possiamo presumere che nella testa di Xi Jinping sia ormai maturata la convinzione che Trump voglia la sua pelle, come dimostra il fatto che il passo indietro del presidente americano riguarda tutti i paesi del mondo tranne il suo. Trump ha aumentato ulteriormente i dazi sulle esportazioni cinesi destinate agli Stati Uniti, portandoli al 125 per cento. È una cifra colossale per un volume d’affari che l’anno scorso ha raggiunto i 439 miliardi di dollari.
Il presidente statunitense ripete che la Cina alla fine dovrà cedere e accetterà di avviare una trattativa. Il fatto che ormai le imposte punitive riguardino soltanto Pechino, però, rende una capitolazione cinese estremamente improbabile, se non impossibile.
Se davvero ci sarà un negoziato, non potrà mai passare da un’umiliazione della Cina, soprattutto in un contesto in cui Xi Jinping si gioca la leadership della seconda potenza mondiale, rivale degli Stati Uniti. In quest’ottica, l’escalation attuale appare decisamente pericolosa, perché alla fine di questo percorso c’è la possibilità concreta di una guerra, anche se nessuno la vuole.
La terza lezione che possiamo trarre da quanto accaduto, e più in generale dai primi tre mesi di esercizio del potere da parte di Trump, riguarda il crollo brutale della fiducia negli Stati Uniti.
Trump ha distrutto in tempo record decenni di “soft power”, quell’influenza che spingeva ad appoggiare Washington per quello che era mentre veniva criticata per quello che faceva.
Oggi i sondaggi condotti in tutto il mondo rilevano una forte diffidenza non solo nei confronti della personalità di Trump, ma anche degli Stati Uniti in generale, colpevoli di aver eletto un irresponsabile.
Questi tre mesi che hanno sconvolto il mondo lasceranno tracce profonde, a prescindere dalle evoluzioni future. La sfiducia è ormai radicata e minaccia di durare a lungo. Dall’Europa a Taiwan, il resto del mondo sta imparando a sopravvivere senza Washington, pur premurandosi di evitare una rottura brutale. Trump ha cambiato il mondo, certo, ma non nel modo in cui avrebbe voluto.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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