Nella vita ci sono alcuni momenti in cui la storia prende con decisione la via del progresso, e a volte lo fa proprio sotto i nostri occhi. Uno di questi momenti, per il mondo arabo, si è avuto l’ultima settimana di ottobre: tre cose diverse successe in Tunisia, in Egitto e in Giordania fanno prevedere giorni migliori per tutti gli arabi che vogliono vivere in società libere e giuste, e lasciarsi alle spalle la triste eredità delle dittature poliziesche.
In Tunisia, dopo le prime elezioni libere da quando è stata rovesciata la dittatura, il partito islamista Ennahda, che ha ottenuto il 40 per cento dei seggi, ha annunciato di voler formare un governo di coalizione con uno dei partiti laici e progressisti del paese. Rachid Ghannouchi, il leader del partito, rimasto a lungo in esilio, ha fatto una dichiarazione alla Thomas Jefferson: “Porteremo avanti questa rivoluzione fino al raggiungimento del suo obiettivo, che è una Tunisia libera, indipendente e prospera, in cui siano garantiti i diritti di Dio, del Profeta, delle donne, degli uomini, dei religiosi e dei non credenti. Perché la Tunisia è di tutti”.
Questo messaggio chiaro, lanciato da uno degli islamisti più in vista del mondo arabo, mostra uno degli elementi che dovrebbero caratterizzare le nuove culture politiche arabe, e cioè una democrazia pluralista, responsabile e aperta a tutti.
Quest’idea sarà tradotta in leggi quando l’assemblea eletta, in cui Ennahda occupa 90 seggi su 217, scriverà una nuova costituzione, formerà un governo ad interim e indirà nuove elezioni entro 18 mesi. Le elezioni davvero importanti non sono infatti quelle che si sono appena svolte, ma le prossime, che dovrebbero esserci all’inizio del 2013. A quel punto Ennahda dovrà dimostrare di saper governare, e il banco di prova sarà la sua capacità di dare ai cittadini quello che chiedono.
I partiti politici nati questo mese in Tunisia, in un’incontenibile proliferazione di rivendicazioni democratiche finora represse, dovranno consolidarsi dando vita al massimo a una ventina di formazioni, che rispecchieranno meglio le tendenze dell’opinione pubblica nazionale.
Il secondo avvenimento storico dell’ultima settimana di ottobre è stata la condanna, da parte di un tribunale egiziano, dei due agenti di polizia accusati di aver picchiato e torturato a morte Khaled Said ad Alessandria nel giugno 2010. I due dovranno scontare sette anni di carcere. Tra i primi slogan della rivoluzione egiziana scoppiata a gennaio c’era proprio: “Siamo tutti Khaled Said”.
Questa sentenza del tribunale ha un valore simbolico immenso, perché sia la vittima sia gli accusati rappresentano i comuni cittadini egiziani, che si sentono vittime di un potere poliziesco e governativo arbitrario. Insieme agli ancor più spettacolari processi all’ex presidente Hosni Mubarak e ad altri dirigenti politici, la sentenza lascia sperare che tutti gli egiziani liberi e democratici vorranno ora prendere sul serio il principio secondo cui il potere deve sempre rendere conto delle sue azioni. Dopo le elezioni del mese prossimo, e dopo le riforme costituzionali, l’Egitto dovrà darsi meccanismi giuridici credibili capaci di stabilire il principio di responsabilità nelle istituzioni politiche a ogni livello.
Il terzo evento decisivo è la nomina di Awn Khasawneh a primo ministro della Giordania. Due cose mi hanno colpito e mi sembrano significative di questa nomina: una è il curriculum del nuovo premier (un magistrato che ha un’ottima reputazione nel mondo e ha fatto parte della Corte internazionale di giustizia) e l’altra è il fatto che re Abdallah, in una lettera aperta al nuovo capo dell’intelligence, ha pubblicamente chiesto di tenere la polizia segreta fuori dalla politica e dalla vita pubblica e di non ostacolare le riforme.
Questa duplice mossa potrebbe essere l’annuncio che la Giordania si sta avviando verso un sistema politico più credibile, giusto e partecipato di quanto sia mai stato finora.
Uno degli eventi più importanti avvenuti in Giordania la scorsa primavera, quando i cittadini hanno manifestato chiedendo riforme costituzionali, è stata proprio la richiesta, partita dal basso, che l’intelligence smettesse di interferire nella vita quotidiana della gente, e di influenzare i mezzi d’informazione, i partiti politici, la scuola e altri settori della vita pubblica. Non è ancora chiaro quanto sia serio e sincero l’appello di Abdallah ai servizi segreti: ma questo lo si vedrà nei prossimi mesi.
Resta il fatto che aver affidato l’appello a una lettera aperta e aver sostituito un generale con un magistrato si possono considerare segnali davvero positivi. In questo periodo ce ne sono stati molti altri. Indicano che in alcuni paesi arabi stanno mettendo radici regole nuove per la politica e il governo. E qui sta il dato incoraggiante: sembra che le nuove regole siano in larga misura scritte o dettate dai cittadini. u ma
*Traduzione di Marina Astrologo.
Internazionale, numero 922, 4 novembre 2011*
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