L’analisi dei dettagli dell’ennesimo, violentissimo scontro tra israeliani e palestinesi non ci insegna niente di nuovo. Tutto questo è già successo molte volte negli ultimi 47 anni, senza nessun risultato concreto o cambi di strategia nei due schieramenti. Centinaia di migliaia di persone hanno perso la vita o sono rimaste gravemente ferite (data la sproporzione nella forza militare, le vittime palestinesi sono state molte di più rispetto a quelle israeliane), ma la spirale di morte, resistenza e vendetta continua invariata, come il susseguirsi delle stagioni. L’equazione di violenza del conflitto israelopalestinese segue leggi inviolabili: l’occupazione genera resistenza, la resistenza genera vendetta e nuova occupazione.
Eppure possiamo imparare qualcosa dagli attacchi di questa settimana, che colpiscono soprattutto civili innocenti su entrambi i fronti. Innanzitutto è ormai chiaro che la tecnologia militare a disposizione dei due schieramenti è diventata totalmente irrilevante, perché non riesce né a ottenere risultati a lungo termine né a cambiare l’atteggiamento dell’avversario. In secondo luogo possiamo constatare che la qualità della leadership politica in Israele e Palestina ha raggiunto i minimi storici, e i due popoli si ritrovano in uno stato di perpetua insicurezza, paura e vulnerabilità.
Gli israeliani devono affrontare un nuovo problema: il lento ma costante aumento delle critiche e delle sanzioni internazionali contro le sue politiche di occupazione. È qualcosa di simile al boicottaggio globale antiapartheid, che vent’anni fa contribuì alla fine del sistema razzista in Sudafrica. I palestinesi, dal canto loro, subiscono le devastanti conseguenze delle loro divisioni. La Striscia di Gaza, Gerusalemme Est e la Cisgiordania restano sostanzialmente disconnesse, e le comunità dei rifugiati in Siria, Libano, Iraq ed Egitto devono affrontare nuovi orrori, come l’assedio e la morte per fame nel campo profughi di Yarmuk, a Damasco.
La causa principale di questo ciclo di distruzione e barbarie (e fallimento politico) è il conflitto irrisolto tra il sionismo ebraico e il nazionalismo arabo dei palestinesi. Dagli inizi del novecento, la macchina da guerra israeliana è diventata formidabile oltre che una leader mondiale dell’omicidio ad alta tecnologia, mentre la resistenza armata palestinese si è progressivamente ridotta a qualche migliaio di giovani nella Striscia di Gaza che rifiutano di accettare la condizione perpetua di esiliati, assediati, colonizzati e asserviti.
In questi giorni le schiaccianti forze israeliane stanno cercando ancora una volta di sottomettere i palestinesi bombardando dei civili indifesi e impedendo l’importazione di generi di prima necessità. Ora Israele minaccia di invadere Gaza con le forze di terra, dimostrando il suo fallimento militare e la sua confusione politica. Lo stato ebraico, infatti, ha continuato per quasi mezzo secolo ad attaccare, occupare e assediare Gaza, e l’unico risultato di questo militarismo oppressivo è stato il consolidamento della determinazione politica e delle capacità tecniche del movimento di resistenza palestinese.
Trovo sbalorditivo che un popolo avanzato come quello israeliano (specialmente i suoi militari) possa manifestare un tale livello di stupidità e ignoranza portando avanti per decenni attacchi che non hanno fatto altro che rafforzare la resistenza palestinese. Oggi i razzi palestinesi sono più protetti e nascosti che mai, e i piccoli razzi lanciati contro Israele hanno raggiunto Haifa, Tel Aviv, l’aeroporto Ben Gurion e l’area del reattore nucleare di Dimona.
I palestinesi, con le spalle al muro, si preparano a nuovi attacchi e giurano che preferiscono morire combattendo piuttosto che vivere in perenne schiavitù sotto il giogo dei sionisti. Le battaglie di oggi sono il dramma di guerrieri inconcludenti la cui volontà di combattere fino alla morte non è bilanciata da un impegno politico adeguato a risolvere il conflitto e vivere pacificamente in due stati adiacenti con uguali diritti.
Al Fatah, il movimento politico dominante in Palestina, ha cercato per decenni di negoziare un accordo di pace con Israele, senza successo. La ragione principale del fallimento è che Israele rifiuta di sottomettersi ai princìpi internazionali che prevedono la fine della colonizzazione, il ritiro dai territori occupati, la condivisione di Gerusalemme e il riconoscimento dei diritti dei rifugiati. Hamas e altri piccoli gruppi portano avanti la lotta armata, ma la loro strategia si è rivelata fallimentare al pari di quella di Al Fatah.
La lotta armata è lo specchio della determinazione di un popolo a essere libero, ma nel caso dei palestinesi il suo unico risultato sono i brutali bombardamenti aerei israeliani. Per certi versi la risolutezza e la competenza tecnica di Hamas sono notevoli, ma con i suoi gesti il movimento non produce alcun risultato politico e sembra poter offrire al popolo solo una guerra infinita.
Questa tragedia è il frutto di ciò che succede quando dei combattenti determinati e dei mediocri leader politici si incontrano nell’arena del nazionalismo. Tutto questo continuerà a ripetersi, finché un giorno troveremo il modo di porre fine all’occupazione israeliana delle terre palestinesi. Solo attraverso il riconoscimento reciproco, gli stati di Palestina e Israele potranno finalmente convivere in pace e godere della stessa sovranità e della stessa sicurezza.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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