A meno che il governo non prenda provvedimenti nelle prossime settimane, da luglio l’iva passerà dal 21 al 22 per cento su una vasta gamma di beni. L’aumento dovrebbe portare nelle casse dello stato circa due miliardi di euro, che serviranno a coprire la riduzione dell’imu sulla prima casa.
Non c’è dubbio che sarebbe meglio scongiurare questo ennesimo colpo ai consumi senza pregiudicare gli obiettivi di bilancio. Si potrebbe sostituire l’aumento dell’iva con tagli di spesa, nella speranza che non deprimano a loro volta i consumi e che allo stesso tempo creino spazio per ridurre le tasse sul lavoro. Parlando di iva, tuttavia, l’ultimo rapporto dell’Istat sulla situazione del paese contiene un’indicazione che fa riflettere: l’aumento dell’iva avrebbe effetti meno indesiderabili di quanto si pensi.
Il 20 per cento delle famiglie meno abbienti concentra la maggior parte dei consumi su beni e servizi non colpiti dall’aumento: i beni che passerebbero dal 21 al 22 per cento rappresentano solo un quarto della loro spesa totale. Con i consumi fermi da troppo tempo, è giusto cercare di non aumentare ancora l’iva. Ma va bene farlo solo se si riduce la spesa pubblica.
Invece, se per evitare l’aumento dell’iva si ritoccassero ancora le accise sui carburanti (o le imposte sui giochi), che hanno un forte impatto sui ceti meno abbienti, il risultato sarebbe quello di realizzare un’operazione Robin Hood al contrario: si toglie ai poveri per dare ai ricchi. Un’operazione di cui non si sente certo il bisogno, data la vistosa crescita delle disuguaglianze e della povertà durante la recessione.
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