Secondo le stime basate sulla circolazione di moneta, circa l’11 per cento del pil italiano è generato nell’economia illegale. A differenza delle attività sommerse (quelle che producono beni legali illegalmente, per esempio non pagando le tasse) e dell’economia informale (quella legata a piccole unità produttive le cui transazioni sono difficilmente osservabili), l’economia illegale produce beni la cui vendita è vietata dalla legge. Si tratta in gran parte di attività legate al traffico di stupefacenti e alla prostituzione.
Come documentano Centorrino, David e Gangemi su
lavoce.info, le stime sull’entità dell’economia illegale variano molto da paese a paese. Eppure, dal prossimo settembre gli stati dell’Unione europea saranno tenuti a contabilizzare anche l’economia illegale (oltre al sommerso e all’informale). Lo ha stabilito il Sec 2010, il nuovo sistema europeo dei conti nazionali e regionali, che impone di inserire nel pil tutte le attività che producono reddito. Il problema è che questo aggiustamento può far variare sensibilmente il rapporto tra il debito e il pil e quello tra il deficit e il pil, entrambi rilevanti per il patto di stabilità.
Nel caso dell’Italia, un 11 per cento in più del pil porterebbe il rapporto tra il debito e il pil del 2013 dal 132 al 119 per cento. È bene adeguarsi prima dell’entrata in vigore delle nuove norme sul rientro del debito. È discutibile tener conto delle attività illegali (e dello stesso sommerso) quando si misura il rapporto tra debito e pil, dato che l’economia illegale e il sommerso non generano entrate per lo stato, se non in modo limitato e indiretto.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it