È stata la sorpresa di lunedì 7 aprile: Donald Trump ha annunciato l’apertura di un negoziato con l’Iran. Poco importa se Teheran lo ha corretto poco dopo precisando che saranno trattative indirette, con il sultanato dell’Oman a fare da intermediario. Il punto essenziale è un altro, e prevede una doppia novità.

Prima di tutto bisogna sottolineare il fatto che il presidente statunitense lo ha annunciato nello studio ovale, in compagnia di Benjamin Netanyahu. Il primo ministro israeliano non ha mai nascosto che preferirebbe l’opzione militare contro il programma nucleare iraniano a un negoziato con Teheran: d’altronde si era opposto strenuamente all’accordo concluso da Barack Obama. Eppure per l’occasione ha deciso di non mettersi di traverso alla scelta di Trump.

I due leader si dicono d’accordo sull’obiettivo di sbarrare la strada verso il nucleare dell’Iran, e Netanyahu ha ammesso che se l’obiettivo potrà essere raggiunto per via diplomatica, tanto meglio. Ciò non toglie che probabilmente il primo ministro israeliano scommette sul fallimento della trattativa, prevista per l’11 aprile, facendo affidamento sulla promessa fatta da Trump che in caso di impasse, la situazione per Teheran si farà scottante.

Nel frattempo, in occasione della sua visita a Washington, Netanyahu ha incassato un’altra sconfitta, con il rifiuto di Trump di cancellare i dazi del 17 per cento imposti ai prodotti israeliani. L’amicizia ha i suoi limiti, evidentemente.

L’altra novità è la scelta del negoziatore statunitense in vista del dialogo con l’Iran. Si tratta di Steve Witkoff, miliardario amico di Trump che ha già discusso il cessate il fuoco a Gaza e incontrato Vladimir Putin nel quadro della guerra in Ucraina. Trump non si fida dei diplomatici di professione, nemmeno della squadra del suo segretario di stato Marco Rubio, sempre più marginalizzato. Il presidente statunitense ha poi dimenticato di coinvolgere gli europei, che avevano partecipato alla trattativa per l’accordo sul nucleare nel 2015.

Donald Trump e l’arte del brutto accordo
Il presidente statunitense ha un’idea di politica estera che deriva dalla sua esperienza da imprenditore. Un approccio che mostra i suoi limiti nei negoziati con leader autoritari come Vladimir Putin e Kim Jong-un.

Witkoff non sa nulla dell’Iran, così come non sapeva nulla dell’Ucraina. Ma ciò che conta è che sia una specie di clone di Trump, che basi le sue decisioni sull’intuito e creda nei rapporti di forza, anche nelle loro manifestazioni violente. È così che a gennaio ha costretto Netanyahu ad accettare il cessate il fuoco a Gaza.

Lo stesso metodo sarà adottato con l’Iran. Il negoziato è stato preceduto da massicci bombardamenti contro gli huthi, in Yemen, e dall’invio di importanti mezzi militari statunitensi nella regione: un classico della strategia dell’intimidazione.

L’Iran, evidentemente, non è in una posizione facile. Il governo di Teheran è stato fortemente indebolito dagli ultimi diciotto mesi di conflitto, in cui i suoi alleati, Hamas ed Hezbollah, sono stati duramente colpiti da Israele. Tuttavia, è difficile che possa cedere alle pressioni di Washington. Al massimo cercherà di prendere tempo.

L’Iran si avvicina a grandi passi alla soglia nucleare, ovvero al momento in cui sarà in condizione di realizzare una bomba atomica. Difficile dunque pensare che possa rinunciare, considerando che il possesso dell’arma proteggerà il suo territorio, esattamente come la bomba nordcoreana rende impossibile una guerra contro Pyongyang.

L’8 aprile un funzionario iraniano ha fatto un paragone con il possesso di Israele di un arsenale nucleare, mai riconosciuto ma indiscutibile: l’affermazione implicita è che anche l’Iran, potenza regionale, ha diritto a dotarsi della bomba.

La questione si pone ormai da molto tempo, ma ora sembra che ci stiamo avvicinando al momento della verità, fra trattativa e scontro. Questa evoluzione aggiunge ancora un po’ di incertezza al caos economico scatenato dalle decisioni di Trump.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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