Indosso i miei pantaloni migliori, dei jeans comprati da uno studente arabo un paio d’anni fa, che forse erano di moda una decina d’anni fa, e la mia maglia più bella, una finta Lacoste comprata a Costinesti, sul mar Nero. Ai piedi ho un paio di Adidas che ho preso in Bulgaria sei mesi fa e che ho deciso di non togliere mai, se non nei casi di forza maggiore: il sesso e il mio bagno settimanale. Ho con me tutti i miei averi: 36 marchi, due banconote da dieci stropicciate e il resto in monete. Sono rimaste nella tasca segreta che mia madre mi ha cucito nei pantaloni per non farmi rubare i soldi mentre sono per strada.
Sono certo che mi basteranno. Da Aldi, il vino più pregiato costa tre marchi, la birra costa meno dell’acqua, e dai turchi dall’altro lato della strada mezza pagnotta imbottita di kebab, maionese, verza, patate fritte e cetriolini, più una bottiglia di Coca, si compra per cinque marchi.
La ragazza viene a prendermi in auto. È una cosa da ridere: l’automobile non ha nulla a che spartire con la Trabant di zio Gigilica. È un’auto vera, non un trabiccolo con le portiere. Non ho idea del perché abbia guardato proprio me, ma se anche scoprissi che vuole solo derubarmi, la cosa non mi darebbe troppo fastidio. Alla fine si fa portare in un ristorante super raffinato, dove i clienti, tutti tedeschi, sono vestiti come se dovessero presentarsi al cospetto delle divinità del Valhalla.
Versare il vino come si deve
Faccio il gentiluomo e le dico di ordinare. Non ho idea di cosa ordinare, del menù non conosco nulla, escluso il vino, che è un Beaujolais. Me lo ricordo ancora perché il cameriere lo dice dandosi delle arie che lo fanno sembrare un discendente di Luigi XIV.
Stappa la bottiglia e ne versa un po’ nel bicchiere. Nella mia famiglia si faceva a gara a bere il vino a secchiate, e lui me ne versa solo due dita in un bicchiere che potrebbe contenerne mezza bottiglia… Tirchi di merda, penso io, che in camera ho raccolto tutti i pacchetti di zucchero, le scatoline di burro e di marmellata che rimanevano dalla colazione, per non parlare di tutte le altre cose che questa gente piena di soldi è abituata a buttar via…
Allora lo invito amichevolmente a versare il vino come si deve. Lui mi guarda con un’espressione piena di rispetto. Poi si volta verso la signora impeccabilmente vestita di fronte al nostro tavolo, che sorride calorosamente.
Non ho idea di cosa sia la mancia, così mi comporto come faccio sempre quando non capisco qualcosa: sorrido e passo avanti
Il cibo fa schifo. Qualche foglia verde, dei granchi, delle cose che somigliano a vermi e sanno di pesce, il tutto presentato in piatti che sembrano quadri del museo d’arte di Craiova, dove ci portavano a forza al tempo del comunismo per cercare di istruirci. Osservo i piatti come fossero opere d’arte, con un misto di riverenza e sfiducia.
Sembra tutto costoso, ma io non ci capisco nulla. Non ci sono nemmeno dei mici con un po’ di senape, neanche del pane normale, un involtino di foglie di vite, un po’ di salsa d’aglio, una salsiccia, un po’ di panna per i bambini, dei fegatini di pollo, della carne alla griglia. Niente di niente, solo dell’erba con un po’ di schiuma e delle lumache. In più, una musica da ascensore che fa venir voglia di suicidarsi.
Quando arriva il conto lo leggo male, secondo la logica che più mi conviene. Mi sembra una grande fregatura. Dai turchi avremmo speso la metà e ci sarebbe rimasto da mangiare anche per la cena. Allungo elegantemente la mia banconota da dieci marchi e sistemo con cura le monete nella ciotolina di argento in cui ci hanno portato il conto.
Una cosa di plastica
La mia ragazza ride di gusto. Rido anche io per farle compagnia. Mi dice che non c’è bisogno di lasciare la mancia. Non ho idea di cosa sia la mancia, così mi comporto come faccio sempre quando non capisco qualcosa: sorrido e passo avanti. Allora lei mi spiega che la mancia è quella cosa che si lascia ai camerieri nei ristoranti. E io mi chiedo perché mai dovrei lasciare qualcosa a una persona il cui solo papillon vale di più di tutti i miei averi.
Prende il conto e mi dice quanto dobbiamo pagare. Sono cento marchi, non dieci, come credevo. Mi sento male. Mi rendo conto di aver buttato al vento gran parte dei soldi che guadagnerò da qui alla fine del mese. Lei continua a ridere e dà al cameriere una cosa di plastica. Paga lei.
Mi sento castrato. Le voci che ho nella testa tacciono. Mi porta a casa. Esco dall’auto, le dico arrivederci e me ne vado. La ragazza suona il clacson e mi guarda perplessa.
“Non mi inviti a salire da te?”.
A scuola non sembrava particolarmente intelligente, ma improvvisamente mi convinco che dev’essere la reincarnazione femminile di Einstein. Questa ragazza ha solo idee geniali! La invito a casa mia. E lei scopre le mie provviste di burro, zucchero e marmellata: non sia mai che una carestia colpisca la Germania. Mi rivela anche che i pantaloncini corti e colorati con cui gioco a basket nel mondo normale sono in realtà delle mutande.
Le sembro un tipo divertente, non lo scemo del villaggio. A quel punto decido di sacrificarmi e mi tolgo le scarpe da basket.
(Traduzione di Mihaela Topala)
Questo articolo è uscito sul settimanale romeno Dilema Veche.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it