Le suore di Trento hanno ragione. Per quale motivo un istituto scolastico cattolico, gestito da religiose, dovrebbe accettare un’educatrice omosessuale? Per chi considera l’omosessualità una devianza, una triste sventura, è del tutto legittimo porsi il problema di quanto un docente gay o una docente lesbica possa agire come esempio negativo sugli alunni e le alunne.
Il problema infatti non è delle suore, ma di uno stato laico e aconfessionale che finanzia le loro scuole e se ne vanta, affermando per legge (n. 62 del 2000) che quegli istituti fanno parte del sistema scolastico pubblico.
Il problema è di una ministra come Stefania Giannini che a fronte di un episodio come quello della scuola di Trento cade dal pero e minaccia di agire con la “dovuta severità”, quando le basterebbe dare un’occhiata alle carte formative delle scuole cattoliche per accorgersi quali sono i requisiti richiesti ai docenti e alle docenti, come per esempio “vivere un’esemplare vita cristiana” (ovvero quella che la Chiesa ritiene tale).
Il problema è di un’amministrazione come quella di Bologna che si accanisce a ignorare i risultati del referendum cittadino di poco più di un anno fa, nel quale si è affermata la volontà di reindirizzare sulle scuole materne statali e comunali i soldi pubblici destinati agli istituti parificati (la stragrande maggioranza dei quali ha un orientamento confessionale).
Proprio in occasione di quel referendum ci chiedevamo quale trattamento potrebbero subire in certi istituti i maestri e le maestre che non rientrassero in determinati parametri: “A parità di preparazione professionale, una maestra divorziata avrà le stesse possibilità di essere assunta di una felicemente coniugata? E una maestra che esprimesse posizioni critiche nei confronti della Chiesa quante possibilità avrebbe di insegnare in queste scuole? Una maestra gay verrebbe valutata per la sua preparazione o verrebbe discriminata?”.
L’episodio di Trento fornisce già una risposta, per quanto scontata, dato che si tratta di una contraddizione evidente per chiunque non voglia fingere di non vedere e per chi – come i suddetti amministratori – allora ci accusò di “ideologismo” e “statalismo”. Come se esistesse qualcosa di più ideologico della discriminazione sessuale o di più statalista dei finanziamenti pubblici ai privati.
Il governo di centro-destra-sinistra attualmente in carica non sembra, né può essere, intenzionato a cambiare rotta in materia di finanziamenti pubblici alle scuole parificate. Proseguirà sulla stessa linea degli ultimi quindici anni, continuando a ripetere il ritornello “scuola parificata = meno costi per lo stato”. Poco importa quali siano i costi sociali, culturali, civili, di tale politica.
Perché gira e rigira si torna sempre al punto di partenza: quale modello scolastico vogliamo finanziare con i nostri soldi? Vogliamo ancora garantire a tutti un’istruzione pubblica di buon livello, ispirata ai princìpi costituzionali e che quindi rifiuta e combatte le discriminazioni di ceto, confessione, etnia, orientamento sessuale, abilità, eccetera? Oppure preferiamo che i nostri soldi siano utilizzati per finanziare le scuole di ogni distinto gruppo sociale, religioso, etnico o politico? Pensiamo ancora che sia importante educare i futuri cittadini al rispetto di determinati princìpi e pratiche di convivenza tra diversi, all’accettazione delle differenze, al rispetto, all’eguaglianza, alla libertà? Oppure non ce ne frega più niente, ognuno per sé e Dio (fuori di metafora) per tutti?
Il destino di questo paese, viene da dire, è contenuto in buona parte nella risposta a queste domande e non è certo roseo. Ma vale ugualmente la pena continuare a porle ai governanti e agli amministratori che fingono di non vedere i fari del camion in fondo al tunnel. Se non altro per farli sentire un po’ peggio ogni volta che si guardano allo specchio.
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