Una madre con tre figlie ha aspettato l’alba appoggiata alla cancellata di una casa del Vedado, sede del Departamento de inmigración y extranjería. Le bambine erano ancora assonnate quando l’ufficio ha aperto. Per loro, come per molti cubani, questo lunedì è cominciato prima del solito, segnato dall’ansia della nuova riforma migratoria.
Già il giorno prima decine di persone aspettavano fuori dagli uffici comunali di tutta l’isola. Le chiacchiere e le domande hanno reso più leggera l’attesa, insieme al caffè venduto dagli ambulanti.
Anch’io ero lì, dopo cinque anni e venti richieste di viaggio respinte, con la speranza che le porte dell’isola si aprissero anche per me. Pochi minuti dopo l’inizio delle pratiche ho saputo che mi daranno il passaporto e finalmente riuscirò a prendere un aereo. Ero felice, sorpresa e un po’ scettica, come molte persone intorno a me.
Un ragazzo mi ha confessato che, se riuscirà a partire, non tornerà “neanche per una visita”. E una signora anziana, che non vede i nipoti da dieci anni, mi ha detto che potrà andarli a trovare a Tampa, in Florida.
Ma l’incontro più emozionante è stato con una donna che teneva per mano le sue tre figlie. Mi ha spiegato che sarebbero andate in Messico, dopo anni in cui viaggiava da sola, dividendosi tra Cancún e l’Avana. “Finalmente potrò alzarmi ogni giorno insieme alla mia famiglia”, mi ha detto, e poi si è persa nel dedalo degli uffici pieni di dipendenti.
Traduzione di Francesca Rossetti
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