“Quando nel maggio 1978 fu approvata la legge che ha depenalizzato l’aborto in Italia, un gruppo di lavoratrici del policlinico Umberto I di Roma occupò un reparto dell’ospedale per permettere che quella legge fosse applicata”. Lo racconta Graziella Bastelli, attivista e femminista, rappresentante della Rete nazionale dei consultori e delle consultorie, impegnata negli anni settanta nella battaglia per la legalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza (ivg) in Italia e ancora oggi in prima linea contro i tentativi di depotenziare la legge 194 del 1978 che permette di ricorrere all’ivg entro i primi tre mesi di gravidanza. Bastelli crede che il tentativo di fare entrare movimenti provita e gli antiabortisti nei consultori attraverso un emendamento alla legge sul Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) sia solo l’ultimo capitolo di una lunga serie per impedire alle donne di autodeterminarsi e di scegliere liberamente sul loro corpo e sul loro futuro.
“Già negli anni settanta gridavamo ‘Molto più della 194’ e ora non siamo disposte a fare nessun passo indietro”, afferma Bastelli, che partecipò all’occupazione del reparto di ostetricia del policlinico romano per applicare la legge. “La legge era in vigore, ma passavano i mesi e non era messa in pratica”, ricorda l’attivista, che ha lavorato al policlinico di Roma per più di quarant’anni.
Bastelli tiene il megafono in mano e scandisce tutti i numeri dell’attacco ai consultori. Quando la incontro, una decina di giorni fa, sta partecipando a un sit-in di protesta insieme a un gruppo di attiviste del movimento transfemminista Non una di meno davanti al senato, mentre l’aula dà il via libera all’emendamento al Pnrr che permetterà la presenza a livello nazionale degli attivisti pro vita e degli antiabortisti all’interno dei consultori. La misura ha suscitato molte polemiche ed è stata approvata il 24 aprile, dopo essere passata alla camera e dopo che il governo ha posto la questione di fiducia. “My body, my choice”, il mio corpo, la mia scelta, c’è scritto su un cartello. “Né stato, né dio, sul mio corpo decido io”, recita invece uno striscione delle attiviste. Gli slogan sono gli stessi degli anni settanta.
“Questo attacco ai consultori è in corso da anni. Basti pensare che dovrebbe essercene uno ogni ventimila abitanti e invece ce n’è uno ogni 75mila. Ci sono stati tagli e chiusure graduali a beneficio di strutture private, gestite da cattolici e pro vita. L’attacco è generalizzato. In questo caso si colpisce la professionalità delle operatrici, sostituendole con attivisti contrari all’aborto”, spiega Bastelli, secondo cui in molte regioni italiane amministrate dalla destra gli antiabortisti e gli estremisti cattolici sono già presenti all’interno dei consultori.
I consultori sono strutture pubbliche sociosanitarie introdotte in Italia nel 1975, per fornire una serie di servizi alle donne e alle famiglie. Dal 1978, cioè da quando è stato depenalizzato l’aborto, hanno anche la funzione di orientare le donne che hanno deciso di interrompere la gravidanza. Ma, secondo le attiviste, sono da tempo sotto attacco e a rischio chiusura.
“Ricordiamo che la sanità è di competenza delle regioni. Possiamo parlare della Lombardia, dove addirittura ci sono novanta consultori privati, quindi molti di più di quelli pubblici. Non siamo di fronte a una novità, però questo emendamento legittima la presenza di queste figure a livello nazionale. Tra l’altro in una maniera ipocrita, perché il testo è stato inserito in una legge sul Pnrr, che non c’entra niente con l’interruzione di gravidanza o con la salute riproduttiva delle donne. Il che denota una violenza inaudita”, assicura Bastelli, che promette battaglia da parte delle femministe dentro e fuori dai consultori.
La legge 194 del 1978 è stata sempre problematica, perché frutto di enormi compromessi, continua l’attivista, secondo cui l’imperfezione della norma è all’origine delle sue debolezze e del rischio che sia di fatto svuotata o inattuata. “La 194 è una legge che nessuno voleva applicare e che fin dal principio si è voluto svuotare con la possibilità dell’obiezione di coscienza per i medici”, continua, mentre riprende a raccontare della lotta di un gruppo di attiviste a pochi mesi dall’approvazione di quel testo.
“I medici italiani non sapevano fare gli aborti, sono venuti a imparare dalle femministe, che a loro volta erano andate a Parigi a studiare il metodo Karman. Sono state le femministe a sostenere le donne che abortivano. Il nostro slogan era: ‘Legalizzare l’aborto per ridurlo’. E così è stato. Da quando la legge 194 è entrata in vigore gli aborti sono nettamente diminuiti. In quei tre mesi nel reparto del policlinico di Roma furono praticati seicento aborti, poi piano piano cominciarono ad aprire altri reparti a Roma, al San Giovanni, al San Camillo. Poi ci sgomberarono. Il tentativo dal principio è stato quello di rendere inattuabile la legge, di rendere complicato abortire”, conclude.
Nel suo libro del 1981 Il tormento e lo scudo. Un compromesso contro le donne (Fandango 2023) la femminista Laura Conti criticava la legge 194, frutto di negoziati e mediazioni tra partiti politici, che di fatto non consentiva in ogni caso l’interruzione di gravidanza, ma ne confermava il divieto individuando “certe circostanze” in cui l’aborto era permesso. Secondo Conti questi limiti concettuali sono stati alla base della sua vulnerabilità.
Le storiche Alessandra Gissi e Paola Stelliferi nel loro recente L’aborto. Una storia (Carocci 2023) hanno sintetizzato così questo processo: “Il risultato della revisione del codice penale fu dunque l’approvazione di una legge che determinava e valorizzava la maternità come libera scelta, connotando l’aborto nei termini esclusivi di una negazione sofferta della maternità”. E ancora: “L’accordo era stato raggiunto su due nodi fondamentali: la concezione dell’aborto come drammatica rinuncia alla maternità e la coesistenza, seppur non parificata, di tre soggetti coinvolti: gestante, padre del concepito e medico”.
Caterina Botti, docente di filosofia morale ed esperta di bioetica all’università Sapienza di Roma, nonché curatrice della riedizione del libro di Laura Conti, spiega che la legge del 1978 concepisce l’aborto non come “pratica di libertà della donna”, al pari di altre tradizioni giuridiche, ma come “pratica sanitaria a tutela della salute delle donne”.
Secondo la norma, infatti, ancora oggi possono interrompere la gravidanza le donne che certificano “circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la salute fisica o psichica, in relazione o allo stato di salute, o alle condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”.
Le mosse del governo
Botti spiega che l’aborto, secondo la formulazione della norma italiana, non è una scelta della donna, ma “un dovere del medico per tutelare la salute della donna, per questo si permette al personale sanitario di obiettare, di non adempiere cioè a quel dovere per ragioni etiche”.
Quarantasei anni dopo la sua approvazione, non si può capire questa formulazione della legge se non si considera che all’epoca “è stata frutto di grandi negoziati tra partiti che erano molto reticenti a depenalizzare l’interruzione di gravidanza”. Tra l’altro, di questa depenalizzazione si discuteva senza risultati dal 1971.
Nella campagna elettorale che l’ha vista vincere la presidente del consiglio Giorgia Meloni ha promesso di non volere toccare la legge, né di volerla abolire o modificare. Tuttavia, ha cercato di renderla inattuabile. “Nei primi tre mesi della diciannovesima legislatura sono state presentate quattro proposte di legge relative alla questione riproduttiva”, spiegano Gissi e Stelliferi.
“Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia, ha riproposto come già aveva fatto nel 2009 e nel 2013 un disegno di legge per modificare l’articolo 1 del codice civile, in modo da anticipare l’acquisizione della capacità giuridica al momento del concepimento invece che al momento della nascita. La seconda proposta è stata presentata dal capogruppo della Lega al senato, Massimiliano Romeo, e prevede il riconoscimento del concepito come componente del nucleo familiare. La terza, del senatore Roberto Menia di Fratelli d’Italia, sostiene l’attribuzione della soggettività giuridica agli embrioni dal momento del concepimento. Infine, un disegno di legge presentato al senato dal capogruppo di Fratelli d’Italia Lucio Malan e dalla senatrice Isabella Rauti sollecita l’inserimento della ‘Giornata della vita nascente’ per valorizzare l’accoglienza di ogni nuova vita, incoraggiare e sostenere la scelta di diventare genitori”.
“In questi anni la destra ha spesso provato a inserire gli antiabortisti nei consultori nelle città o nelle regioni in cui ha governato. Sembra che ora la strategia sia di farlo a livello nazionale”, spiega la senatrice del Partito democratico Cecilia D’Elia, autrice insieme alla ricercatrice Giorgia Serughetti del libro Libere tutte (minimum fax 2021).
“La destra mette in discussione la libera scelta delle donne, del resto il patriarcato è esattamente una forma di controllo del corpo delle donne. Le leggi che hanno legalizzato l’aborto hanno dovuto riconoscere che l’ultima parola spetta a una donna, ed è questo che spaventa. È questo che le destre rifiutano. La Francia ha aperto questa strada della costituzionalizzazione del diritto all’aborto e io penso che anche noi dovremmo porre la questione in questi termini per reagire agli attacchi alla legge italiana”, conclude D’Elia.
L’interesse per i centri antiviolenza
È proprio l’articolo 2 della legge 194 a prevedere che i consultori debbano “contribuire a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza” e per questo possono “avvalersi della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita”.
Questo è il quadro in cui almeno dal 2010 diverse regioni amministrate dalla destra hanno favorito i gruppi pro vita e di estremisti cattolici nelle loro attività all’interno dei consultori e degli ospedali a livello locale. La prima regione a istituire un fondo amministrato dal Movimento per la vita è stata la Lombardia, che nel 2010 ha lanciato il fondo Nasko, che prevedeva l’erogazione di tremila euro in diciotto mesi alle donne che rinunciavano a praticare l’interruzione di gravidanza, a fronte di un certificato che dovevano presentare in cui dimostravano la loro iniziale volontà di abortire.
Nel 2012 è stato il Veneto ad approvare una legge regionale che autorizzava i gruppi antiabortisti a esporre materiale informativo sulle “alternative all’aborto” negli ospedali e nei consultori. Poi ci sono state le delibere contro l’aborto adottate dai consigli comunali come quello di Verona nel 2018. Nel 2022 il Piemonte ha istituito il fondo Vita nascente, quattrocentomila euro gestiti dagli antiabortisti, progetto ripreso anche dall’Umbria, che nel 2023 ha istituito un fondo simile.
La governatrice della regione Donatella Tesei, che si è ricandidata a un secondo mandato per amministrare l’Umbria alle elezioni del 2024, nella precedente campagna elettorale si era già schierata al fianco delle associazioni antiabortiste e dell’associazione delle Famiglie numerose, firmando il loro manifesto dei valori. E proprio dall’Umbria arriva una nuova allerta: “Nella nostra regione non solo i consultori sono sotto attacco, ma anche i centri antiviolenza”, spiega Sara Pasquino, avvocata e attivista di Non una di meno.
“Nel 2021 il comune di Terni, dopo sette anni di gestione dei servizi antiviolenza da parte di un’associazione femminista, ha indetto una gara d’appalto usando il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, trascurando l’importanza della metodologia dei centri antiviolenza e mettendo a repentaglio l’autonomia delle scelte delle donne”, assicura Pasquino. “A Terni la gara è stata vinta da un’associazione di stampo cattolico, senza alcun coinvolgimento delle associazioni che storicamente si occupano di contrasto alla violenza di genere sul territorio”, continua l’attivista, che ora è impegnata in una campagna per evitare che anche i servizi antiviolenza di Narni siano affidati alla stessa associazione cattolica.
“I centri antiviolenza devono essere gestiti da operatrici esperte che hanno alle spalle una formazione femminista, non possono essere lasciati nelle mani di operatrici che vogliono convincere le donne a rimanere dentro famiglie violente o con delle idee di famiglia tradizionale”, spiega Pasquino.
“In una riunione recente presieduta dalla ministra per le pari opportunità e la famiglia Eugenia Roccella, in cui si affrontava la revisione dell’intesa tra stato e regioni sui requisiti minimi per l’accreditamento dei centri antiviolenza e delle case rifugio, è apparso evidente l’indirizzo di voler ampliare a qualsiasi soggetto la gestione di quei servizi, facendo cadere gli attuali requisiti difesi dalle associazioni femministe, che hanno creato i centri antiviolenza. A conferma di questo indirizzo è stato prorogato da 18 a 36 mesi il periodo concesso a tutti i soggetti interessati per certificare l’acquisizione dei requisiti minimi per la gestione”, spiega Pasquino.
“La nostra preoccupazione è che la regione Umbria voglia cancellare il ruolo delle associazioni femminili e femministe che questi luoghi li hanno costruiti con anni di lotte. Non si tratta solo di gestire ‘servizi’, ma di promuovere il cambiamento sociale e culturale indispensabile a contrastare la violenza sulle donne attraverso attività di formazione e sensibilizzazione”, continua l’attivista.
Negli ultimi giorni anche il comune di Spoleto ha pubblicato un bando, poi annullato, per la gestione del centro antiviolenza della città, gestito fin dal 2018 da un’associazione femminista che si occupa di contrasto alla violenza di genere dal 2009. “Ci sembra che in Umbria si stia sperimentando qualcosa che potrebbe essere replicato a livello nazionale, anche in altre regioni e non solo nei consultori, ma anche nei centri antiviolenza: tutti gli spazi del femminismo sono sotto attacco da parte di questo governo, che vuole colpire la libertà delle donne”, conclude.
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