“Prima rompevamo tutto”. E perché? “Perché non c’era niente”. E ora? “Ora no, perché l’hanno aggiustato e perché è bello”. Alessandro (nome di fantasia), 11 anni, abita a Tor Bella Monaca, estrema periferia est di Roma. Come tanti bambini, il suo divertimento a largo Mengaroni – uno spazio grande almeno un paio di campi di calcio, l’unica piazza di un quartiere di edilizia residenziale pubblica di 26mila abitanti – era fare a pezzi le panchine di cemento e mirare con la fionda ai lampioni, mentre intorno rombavano le moto, minaccioso simbolo criminale e sfondo sonoro per lo spaccio. Nessuno si prendeva cura di largo Mengaroni, perché mai avrebbe dovuto farlo lui.

A largo Mengaroni ora è stata rifatta la pavimentazione, i paletti impediscono l’accesso alle moto, sono stati piantati nuovi alberi, ci sono un campo di basket, una pista per lo skateboard e un palco per allestire spettacoli. E Alessandro e i suoi compagni possono sedersi su un cubo arancione, il colore che domina ovunque. In un grande cesto sono ammassati pattini e palloni per i più piccoli. Su alcuni tavolini è disegnata una scacchiera e gli anziani si sfidano a scopone.

Qui nel cuore di Tor Bella Monaca sembra svanito il senso di vuoto e di rassegnazione, e Alessandro l’ha capito. È come se anche lui avesse sottoscritto il patto siglato da una sessantina di abitanti, un elenco che comincia con Ahmed Baka, nato a Gharbia, in Egitto, nel 1998 e termina con la Marcella Vannozzi, 42 anni, romana. Il patto, intitolato La piazza siamo noi, è firmato anche da undici associazioni, dall’istituto scolastico Acquaroni e dalla parrocchia di Santa Rita. Tutti loro, in base a un regolamento varato dal comune di Roma, animano la piazza, organizzano iniziative dallo sport alla cultura, e dunque, senza bisogno di ricorrere a cancellate e a telecamere, scoraggiano l’eventuale vandalo.

In un pomeriggio assolato, temperatura al di sopra dei 35 gradi, un gruppo di insegnanti, psicologi e d educatori, con la regia dell’associazione La cartina di tornasole, discute sul lavoro che da tre anni va avanti nelle scuole della periferia est di Roma, tutta più o meno disagiata come Tor Bella Monaca: fianco a fianco professori, ragazzi e poi chi opera nel terzo settore e nelle associazioni, tutti spiegano come consolidare quella che chiamano comunità educante.

Largo Mengaroni è appunto una comunità educante, l’ampliamento di quello che succede a scuola. È la scuola fuori dalla scuola, per usare l’espressione cara alla pedagogia innovativa. Il cantiere è ormai chiuso. Ma non è il solo a Tor Bella Monaca ed è uno delle centinaia e centinaia che si sono aperti a Roma, finanziati con i soldi del Pnrr e con i fondi per il Giubileo del 2025. Si lavora in tutta la città per riparare le buche, per realizzare un sottopassaggio e pedonalizzare la piazza davanti a via della Conciliazione. E poi in via Ottaviano, davanti alla stazione Termini, in piazza Augusto Imperatore, dove sta riemergendo il mausoleo, e per rifare i binari dei tram. Su un cantiere dominato da giganteschi cilindri verde smagliante si affacciano palazzo Venezia e l’Altare della patria. I disagi sono tanti, si sbuffa, s’impreca. Il sindaco Roberto Gualtieri, giubbotto arancione e caschetto giallo, gira ogni giorno tra ruspe e impalcature, illustrando e rassicurando sui social network.

Ma i cantieri, appunto, sono aperti anche lontano dal centro, dove Roma prova a trasformarsi mettendo in atto pratiche nuove, coinvolgendo tanti soggetti e tanti saperi, da quelli delle associazioni di cittadini a quelli delle università. La rigenerazione in alcuni quartieri periferici, infatti, non la si vorrebbe solo edilizia. La sistemazione di spazi pubblici, la ristrutturazione di luoghi abbandonati, anche l’efficienza energetica si tenta di realizzarle insieme a chi poi dovrà usufruirne, perché da tutto il lavoro vengano fuori meno disuguaglianza e meno esclusione. Inoltre, questa è la sola condizione, sostengono urbanisti e sociologi, perché un cantiere, con tutti i disagi che comporta, sia veramente sentito come necessario e utile e quindi quello che realizza duri nel tempo.

L’ascolto

In diversi luoghi si fa un po’ come si è fatto con i bambini e ragazzi di Tor Bella Monaca: dal luglio 2020 e per tutto il 2021 insegnanti, educatori, architetti, antropologi hanno raccolto i desideri degli abitanti, li hanno sollecitati, gli hanno dato forma e concretezza. Le parole chiave sono state due: coprogrammazione e coprogettazione. Due scuole di Tor Bella Monaca, Acquaroni e Melissa Bassi, sono state il fulcro di questa sperimentazione promossa da diversi soggetti riuniti nel progetto Cresco (Cantiere di rigenerazione educativa scuola cultura occupazione): la fondazione Paolo Bulgari, diretta da Giulio Cederna, che ha finanziato l’intervento; l’associazione Cubo libro, che in un locale occupato sedici anni fa in fondo a largo Mengaroni gestisce la piccola e vitalissima biblioteca, motore infaticabile di attività soprattutto per i più piccoli (“Ci consideriamo un presidio di benessere”, dice Claudia Bernabucci, che guida l’associazione); e gli urbanisti del dipartimento di ingegneria civile e ambientale dell’università Sapienza, coordinati da Carlo Cellamare. D’accordo con l’amministrazione pubblica, sono state scartate le usurate forme di partecipazione, che si riducevano a illustrare agli abitanti progetti già decisi, e si è scelto un percorso di lungo periodo, ben regolamentato, faticoso, mediato da associazioni come Cubo libro.

Si sono ascoltati i desideri dei più piccoli e, attraverso loro, dei genitori. Si è osservato come la piazza veniva vissuta, per non stravolgere abitudini, ma per dargli un assetto definito. Ne è nato un progetto messo a punto da un gruppo coordinato da un ingegnere, Marco Gissara, e dall’architetta Maria Vallo.

Dieci mesi di lavoro e il 21 dicembre 2023, più o meno quando Tor Bella Monaca festeggiava i quarant’anni di vita, il nuovo largo Mengaroni è stato inaugurato. A quel punto è nato il patto La piazza siamo noi. Obiettivo: la custodia e quindi la cura di un luogo che a Tor Bella Monaca non c’era. Dove, dice Cederna, “ricostruire i legami comunitari, recuperare il senso di appartenenza a un quartiere che si rappresenta solo come malfamato e per il quale si rivendica un’immagine meno stereotipata: sono stati questi gli ingredienti fondamentali del progetto, quasi più importanti del cemento, delle pietre, dei colori utilizzati per ristrutturare gli spazi”.

Un edificio da ripensare

Tor Bella Monaca, grande 170 ettari, è divisa in quattro parti, poco comunicanti tra loro: due da un lato e due dall’altro di uno stradone dove sfrecciano le auto. Risalendo una bretella si raggiunge il nucleo intorno a via dell’Archeologia. Qui si affaccia il più imponente edificio di tutto il quartiere, che ha diritto solo a una sigla: comparto R5. Dalla primavera scorsa è ingabbiato in un’impalcatura e a stento se ne riconosce la forma a zig zag, con tre corpi sporgenti verso la strada, dietro i quali si aprono altrettante corti aperte sulla campagna, e due profonde insenature. È stato realizzato, come tutta Tor Bella Monaca, in appena tre anni, dal 1979 al 1982. Reca la firma di un architetto romano tra i più illustri del secondo novecento, e non solo nella capitale, Pietro Barucci, morto un anno fa ultracentenario.

R5 si sviluppa su settecento metri e in otto piani ospita 1.257 alloggi, tutti uguali: 58 metri quadrati. In più di quarant’anni non vi si è mai fatta manutenzione. Dalle fogne l’umidità risale negli appartamenti e corrode le pareti, che si gonfiano e si spaccano. Le tubazioni perdono acqua. Qui, racconta Francesco Montillo, ingegnere e ricercatore dell’università Sapienza, “molte persone anziane vivono perennemente attaccate ai tubi dell’ossigeno”. Dentro R5 si concentra l’intera gamma del disagio di Tor Bella Monaca: redditi bassissimi, disoccupazione elevata, alte percentuali di disabilità fisica e psichica, detenzioni domiciliari, scarsi livelli d’istruzione e dispersione scolastica. Come in molte megastrutture, anche qui è difficile avere una mappa definita di chi vive negli appartamenti. Ci sono quelli occupati illegalmente, “ma anche chi è regolare spesso fornisce indicazioni imprecise su dove abita”, aggiunge Montillo. E poi ci sono la criminalità organizzata e le piazze di spaccio, tra quelle che garantiscono più profitti in Italia. E da quando sono montate, anche le impalcature sono un nascondiglio per le dosi da smerciare.

Corviale, Roma, febbraio 2023. (Stefano Costantino, SOPA Images/LightRocket/Getty Images)

“La criminalità organizzata e lo spaccio sono gli elementi che dominano nella rappresentazione che dell’edifico R5 viene fornita all’esterno. Ma molto più peso ha il disagio nelle sue più diverse forme”, insiste Montillo. Dal 2011, tra studi universitari, workshop e poi ricerca sul campo, Montillo vive la realtà di Tor Bella Monaca. È stato tra i protagonisti della coprogrammazione e coprogettazione di largo Mengaroni e ora coordina con Carlo Cellamare Spazio cantiere, un laboratorio che, insieme all’impresa sociale Melting pro, a Federica Pesce, a un gruppo di giovani ricercatori della Sapienza e dell’università Iuav di Venezia prova ad accompagnare gli abitanti di R5 in una complessa trasformazione, che non si può lasciare solo all’architettura.

L’edificio sarà ristrutturato con i soldi del Pnrr, che si aggiungono a precedenti previsioni finanziarie, per un totale di 96 milioni (per piazza dei Cinquecento se ne spendono 18, 70 per il sottopasso davanti a via della Conciliazione): si farà il cappotto termico e verranno montati infissi nuovi, sul tetto si sistemerà una distesa di pannelli solari e le tante caldaie saranno sostituite con una centralizzata. La regia è del comune, che è il proprietario dell’edificio. La progettazione preliminare è stata affidata a docenti della Sapienza e poi quella definitiva ed esecutiva agli studi Abdr e Valle 3.0.

Oltre ad arrestare l’incuria e l’abbandono, i lavori mirano a riattivare gli spazi comuni e le aree verdi, e a garantire più sicurezza, per esempio spostando verso l’esterno le scale e i ballatoi, oggi invisibili e dunque luogo privilegiato per lo spaccio. Inoltre, si vorrebbe dotare l’edificio di servizi, quelli che in questa zona di Tor Bella Monaca non ci sono mai stati.

La mediazione

Quali servizi? E, in generale, come mediare tra gli abitanti, i loro bisogni e le loro aspettative, da una parte, e il comune e i progettisti, dall’altra? È qui che intervengono Montillo e Spazio cantiere. Il laboratorio ha sede in un piccolo locale messo a disposizione dal municipio, ma presto si trasferirà in via dell’Archeologia. È un posto angusto, ci sono il bancone e lo sportello a vetri come negli uffici.“Siamo qui dal dicembre 2023, ma il lavoro è cominciato nel 2019”, racconta Montillo. “Abbiamo incontrato le associazioni che da tempo sono presenti a Tor Bella Monaca, sono tante e operano in vari settori. Attraverso loro sono state raccolte le richieste degli abitanti. Non è semplice far partecipare i quattromila e più residenti di R5. La sfiducia verso le istituzioni giunge fino al punto che loro stessi non riconoscono di avere dei diritti. Troppe le promesse mai realizzate. Inoltre, mancava un’analisi di chi fossero i residenti, al di là di cosa risultasse agli uffici comunali: quante persone occupavano un alloggio, quante di queste soffrivano di patologie, quanti i disoccupati o i lavoratori precari, quanti gli assegnatari regolari e quanti no”.

Con il trascorrere degli anni, raccontano a Spazio cantiere, nell’edificio si era spento il sentimento collettivo che forse animava all’inizio la comunità degli abitanti. Erano prevalse pulsioni individualiste sulle quali aveva inciso anche la criminalità organizzata. Si è dunque lavorato per ricostruire rapporti di vicinato. Le riunioni si sono infittite, a piccoli gruppi, a gruppi più allargati. “Riparare un edificio che casca a pezzi è stata la prima questione sollevata”, aggiunge Montillo, “poi si è chiesto di trovare soluzioni per garantire sicurezza. Quindi si è passati ai servizi. In un primo tempo si è pensato a quelli commerciali, che pure mancano. Poi è avanzata l’ipotesi che un certo numero di spazi fosse destinato ad associazioni che già sono presenti a Tor Bella Monca, a enti del terzo settore. Insomma si è spinto per realizzare luoghi in cui si provasse ad arginare le tante forme di disagio non solo dell’edificio, ma di tutta via dell’Archeologia”.

Il progetto definitivo ha così previsto che una cinquantina di appartamenti al piano terra ospiteranno i servizi. Attraverso un bando del comune sono state selezionate già venti associazioni che attueranno progetti sociosanitari, di assistenza psicologica, antimafia, educativi, sportivi, ludici, di formazione professionale: da Cubo libro, motore di socialità a largo Mengaroni, fino a Libera, alla comunità di Sant’Egidio, alle psicologhe di Pianoterra. In uno spazio a sé verrà sistemato il Museo delle periferie. Le famiglie che occupano quegli appartamenti saranno trasferite sempre nel grande edificio o in una torre di otto piani che sarà realizzata in una delle corti. A Spazio cantiere sono impegnati ad accompagnare questi spostamenti, evitando tensioni. Analoghi trasferimenti sono previsti al primo piano, dove una settantina di appartamenti saranno accorpati e ne saranno ricavati una cinquantina di un centinaio di metri quadrati. Serviranno per famiglie più numerose mentre in altri alloggi si sperimenteranno forme di coabitazione di persone anziane, alcune delle quali disabili.

A Tor Bella Monaca, sottolinea Montillo, si lavora sulla qualità degli edifici e dell’abitare, e sul disagio. E si fa leva sui tanti punti di forza presenti nel quartiere. Una procedura di ascolto analoga è avviata da anni a Corviale, altro luogo simbolo di una periferia sofferente, dove c’è un laboratorio che vede impegnate ricercatrici dell’università Roma Tre (fra le altre, Sara Braschi, Maria Rocco, Sofia Sebastianelli, coordinatori Giovanni Caudo e Francesco Careri). Qui, oltre al rifacimento del quarto piano dell’edificio, il laboratorio affianca un altro Piano urbano integrato che prevede la ristrutturazione della biblioteca comunale Renato Nicolini e del centro di formazione professionale e di orientamento al lavoro, la sistemazione di una cavea e di una piazza dove si affacciano botteghe artigiane. E quindi l’efficientamento energetico del palazzo (cappotti termici e infissi nuovi). D’altronde, dice Sara Braschi, “c’è gente che paga 7 euro al mese d’affitto e oltre 100 di riscaldamento”.

Un laboratorio è attivo dall’inizio del 2024 anche a Roma nord, dove ha sede il Santa Maria della Pietà, l’ospedale psichiatrico costruito nel 1914 e chiuso definitivamente nel 1999. Il gruppo di ricercatori universitari fa capo alla Luiss e a Christian Iaione. Ma qui non ci sono abitanti. Nel parco, grande 150 ettari, sono inclusi 43 padiglioni dove, fino all’apertura del cantiere, c’erano sedi del municipio e dell’azienda sanitaria locale (Asl), ambulatori e un ricco e assai attrattivo Museo della mente.

Sia il parco sia i servizi sono sempre stati usati da chi risiede a Monte Mario alto e lungo via Trionfale, e perfino i pazienti del day hospital psichiatrico facevano parte del paesaggio urbano. Ora l’obiettivo, dice Iaione, “è offrire un’infrastruttura sociale al quartiere, che rispetti la storia di questo luogo e che integri salute umana, ambientale, degli ecosistemi e animale”. Si è cominciato a raccogliere le esigenze di chi abita in quelle zone. Resteranno ambulatori, municipio e Museo della mente. Altri padiglioni ospiteranno biblioteche, spazi culturali e di lavoro, e per la ristorazione. Ci sarà un ostello che, dopo il Giubileo, potrebbe accogliere residenze per i parenti di chi è ricoverato nei vicini ospedali, il Gemelli e il San Filippo Neri. Ma sono ipotesi.

Il metodo del laboratorio, a prescindere dai luoghi in cui è attivo (altri ce ne sono nei quartieri di Bastogi, Centocelle e Quarticciolo), sperimenta formule di partecipazione diverse dal passato, tanto più necessarie pensando al crollo di un ballatoio e ai tre morti in una delle Vele di Scampia, a Napoli, dov’è in atto una complessa ristrutturazione. Ed è comunque nelle periferie che a Roma si prova a far sì che un cantiere non attiri solo maledizioni.

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