Un breve recap per chi si è perso gli ultimi sviluppi della crisi politica in Bangladesh, che ha portato a una svolta epocale il 5 agosto con la fuga della prima ministra Sheikh Hasina. A luglio migliaia di studenti sono scesi in piazza contro la decisione della corte suprema di reintrodurre un sistema di quote per l’accesso al pubblico impiego che destinava il 30 per cento dei posti di lavoro ai figli e nipoti dei veterani della guerra d’indipendenza del 1971.

Il governo di Hasina ha risposto duramente alle manifestazioni, schierando polizia e forze paramilitari che hanno sparato sulla folla. La protesta contro le quote si è presto trasformata in un movimento contro Hasina e la Lega Awami, che hanno guidato il paese per 15 anni in modo sempre più autoritario, prendendo di mira i dissidenti, gli avvocati, i giornalisti e gli attivisti critici nei loro confronti. Il 5 agosto Hasina è scappata in elicottero rifugiandosi a New Delhi e l’esercito è intervenuto sciogliendo il parlamento e prendendo il potere.

Quando l’esercito interviene non è quasi mai una buona notizia e la storia dei paesi dell’Asia meridionale è costellata di esempi negativi. Si è rimasti quindi in attesa di capire che intenzioni avessero i militari, anche se per i manifestanti il 5 agosto era già diventato il “nuovo giorno dell’indipendenza”. Per fortuna l’esercito ha nominato un governo ad interim e, accogliendo la richiesta degli studenti, ha chiamato il premio Nobel per l’economia Mohamed Yunus a guidarlo. Del nuovo esecutivo, che ha il compito di risanare le ferite politiche, sociali ed economiche del paese e traghettarlo verso nuove elezioni, fanno parte anche dei rappresentanti del movimento che ha portato alla caduta di Hasina.

Yunus, noto come il “banchiere dei poveri”, è un economista di 84 anni che negli anni sessanta fece un dottorato negli Stati Uniti, paese dove ha poi anche insegnato all’università prima di rientrare in Bangladesh. È noto soprattutto per il suo lavoro con la Grameen Bank, specializzata in microcrediti, piccoli prestiti senza garanzie concessi alle famiglie povere a partire dal 1974 per avviare piccole attività.

Nel 2006 ha ricevuto il Nobel per la pace per il suo rivoluzionario modello di microfinanza, che nel frattempo è stato adottato in più di cento paesi. Nel 2007 aveva tentato di fondare un partito, ma poi ha rinunciato, e da allora Sheikh Hasina gli ha fatto la guerra, tentando di offuscarne l’immagine specchiata accusandolo di “succhiare il sangue ai poveri”. Negli anni successivi Yunus ha dovuto difendersi da accuse di vario genere – diffamazione, irregolarità fiscali e sicurezza alimentare – e nel 2011 la banca centrale bangladese l’ha rimosso dalla guida della Grameen Bank perché aveva superato l’età della pensione.

In realtà Yunus non solo gode di una buona reputazione a livello internazionale, ma è anche un outsider rispetto all’establishment politico bangladese ed è lui stesso vittima di quel governo dispotico e corrotto che lo riteneva un potenziale avversario e che l’ha perseguitato per mezzo di una magistratura fortemente influenzata dalla Lega Awami. Il 30 agosto il suo governo ha comunicato il bilancio ufficiale delle vittime della repressione nel mese di proteste e scontri. Mille persone sono morte e centinaia hanno perso la vista.

Questo governo ha ora il compito di far ripartire l’economia, che sotto i quattro mandati di Shehik Hasina era prosperata ma che negli ultimi due mesi si era bloccata a causa dei disordini. Come ha scritto l’economista Jayati Ghosh in un articolo che abbiamo pubblicato su Internazionale, sotto Hasina il Bangladesh ha subìto “una trasformazione economica notevole, spinta da un’impennata nelle esportazioni di prodotti d’abbigliamento e investimenti infrastrutturali, che hanno anche dato impulso all’occupazione femminile. Negli ultimi vent’anni la povertà si è dimezzata e nel 2019 il pil pro capite ha superato quello dell’India”.

Un successo che però è stato oscurato dalla deriva autoritaria del suo governo, oltre che dalle disuguaglianze crescenti e dalla constatazione che export e pil non bastano a creare un benessere diffuso, soprattutto se i salari e le condizioni di lavoro non sono dignitosi. Sul malcontento diffuso, dice Ghosh, hanno pesato anche le misure di austerità imposte dal Fondo monetario internazionale, che nel 2023 ha negoziato con Dhaka un prestito di quasi cinque miliardi di dollari, portando a tagli nei servizi pubblici essenziali.

E Hasina dov’è? Il 5 agosto, mentre la piazza invocava le sue dimissioni, l’ex premier è volata in elicottero a New Delhi, nell’attesa, si pensava, di raggiungere un altro paese a cui chiedere asilo. Più di un mese dopo Hasina è ancora in India, creando non poco imbarazzo al governo di Narendra Modi. Se è vero, infatti, che negli ultimi quindici anni il Bangladesh è diventato un partner importante per New Delhi, dal punto di vista commerciale ma soprattutto nel campo della sicurezza, condividendo i due paesi quattromila chilometri di frontiera, ora l’India deve instaurare buoni rapporti con il governo ad interim che si è insediato a Dhaka. E finché darà ospitalità a Hasina, che molti in Bangladesh chiedono sia processata per i morti nelle proteste, non sarà facile. Soprattutto perché da New Delhi l’ex premier bangladese, invece che stare in silenzio, si rivolge ancora ai bangladesi da leader. Giorni fa, in un’intervista all’agenzia indiana Pti, Yunus ha usato parole dure contro Hasina, che “dovrebbe stare zitta finché Dhaka non chiede la sua estradizione”. Quanto a New Delhi, “a nessuno piace che lei se ne stia lì dando istruzioni, non è un bene per noi né per l’India”.

Questo testo è tratto dalla newsletter In Asia.

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