Sono le sette di sera del 22 giugno e sulla spiaggia di Taranto alcuni ragazzi fanno il bagno, proprio accanto al cartello “divieto di balneazione”. Nel cielo svetta un sole pallido e giallognolo, velato dalla nube di sabbia del Sahara che da un paio di giorni avvolge la città, alimentando un caldo asfissiante. Sullo sfondo si vedono le gru del porto. Un bambino tira su qualche sassolino dalla sabbia e lo lancia in acqua. È solo giugno, ma sembra agosto, e nelle ore centrali è quasi impossibile uscire di casa a causa delle alte temperature. Sopra la spiaggia c’è la passeggiata del lungomare, intitolata alla memoria dello scrittore e giornalista Alessandro Leogrande, collegata alla spiaggia da una pedana di legno un po’ sconnessa e da una scalinata di ferro.

Poco più avanti, invece, andando verso il castello aragonese, c’è una discreta calca. Una folla sempre più numerosa si sta avvicinando al palco che ospita i concerti del Medimex, un festival dal respiro internazionale finanziato dalla regione Puglia che si tiene qui dal 2018, in un luogo apparentemente lontano dagli itinerari dei musicisti stranieri. Eppure in questi giorni di giugno Taranto somiglia a una capitale della musica, ospita grandi concerti (quest’anno gli Smile di Thom Yorke e Jonny Greenwood, ma anche i Pulp e i Jesus & Mary Chain), mostre (come quella al museo MarTa dedicata agli anni newyorchesi di John Lennon raccontati dalle foto di Bob Gruen, presente all’inaugurazione), documentari in anteprima (lo splendido AngelHeaded hipster, doveroso tributo al genio di Marc Bolan), incontri, workshop dedicati agli addetti ai lavori e non solo. L’edizione di quest’anno ruota principalmente attorno al tema dell’intelligenza artificiale.

Della città in questi decenni si è parlato tanto, ma quasi mai per la musica. Questa “città a strati”, come l’ha definita Leogrande, fu una delle più antiche colonie della Magna Grecia ma, a partire dall’ottocento, il suo sviluppo è stato soprattutto industriale, con l’arsenale e poi con le acciaierie dell’Ilva nel novecento, che hanno garantito occupazione ma anche causato un disastro ambientale le cui conseguenze si vedono ancora.

Eppure la musica a Taranto ha sempre trovato il modo di venire fuori. Pochi sanno, per esempio, che negli anni ottanta da queste parti c’è stata un’ondata di concerti new wave. “A quell’epoca ero promoter e avevo un negozio di dischi a Bari, ma collaboravo spesso con i miei colleghi di Taranto. Era un periodo d’oro: a Taranto venivano band come i New Order, i Bauhaus, Siouxsie and the Banshees, fino ai Soundgarden, che si sono esibiti nel giugno 1989 al teatro Ariston”, racconta Cesare Veronico, coordinatore del Medimex e di Puglia sounds, un progetto della regione a sostegno degli operatori e degli artisti.

Veronico, nato nel 1960, è stato uno dei primi dj italiani negli anni settanta, ha fatto lo speaker radiofonico e ha un passato nella politica pugliese nelle file dei Verdi. Parlando di cosa succedeva negli anni ottanta da queste parti, commenta: “In quel periodo a Bari e a Taranto davamo del filo da torcere anche a Roma. Nell’edizione 2021 del Medimex non a caso abbiamo organizzato un tributo alla new wave. E nel 2020 volevo riportare qui proprio i Bauhaus, ma è saltato tutto a causa della pandemia”.

Il Medimex, secondo Veronico, sta dando una grossa mano a Taranto, soprattutto a costruire attorno alla città una narrazione positiva e lontana dall’immagine cupa dipinta spesso dai mezzi d’informazione. “Quando siamo arrivati qui c’era solo il concerto del 1 maggio. Ora invece c’è una presenza crescente di operatori, musicisti e festival. La prima edizione, quella del 2017, si era tenuta a Bari: Iggy Pop aveva suonato di fronte a cinquantamila persone, e poi c’erano stati gli Slowdive e artisti rap italiani come Gemitaiz e Salmo. Ma il presidente della regione, Michele Emiliano, voleva investire su Taranto e quindi ci ha convinto a venire qui. Da quando siamo a Taranto, le cose sono cambiate: hanno aperto cinque locali di musica dal vivo, come lo Spazioporto, messo in piedi con il sostegno dell’Apulia film commission. Dobbiamo smettere di parlare di Taranto come la città dell’Ilva e dei tumori. Questo ovviamente non significa mettere la polvere sotto il tappeto, ma guardare avanti”.

Thom Yorke sul palco, 22 giugno 2024. (Medimex)

Alle 21.45 il caldo non dà tregua, anche se stando vicino al lungomare arriva un po’ di vento. Alla sinistra del palco c’è il mare, alla destra svetta l’imponente palazzo del Governo, con la sua facciata color terra. Gli Smile entrano in scena. Prima Jonny Greenwood, poi ecco il batterista Tom Skinner e il turnista Robert Stillman. Per ultimo arriva Thom Yorke. Sorridente, disinvolto. Yorke prende la chitarra e attacca Wall of eyes, il pezzo che apre il secondo disco del trio. E soprattutto comincia a cantare, riempiendo da subito con la sua voce lo spazio.

Gli Smile sono un progetto su scala diversa rispetto ai Radiohead. Non minuscola, visto che stasera ci sono circa seimila spettatori, ma più a misura d’uomo. Liberi dal gigantismo e dal peso del repertorio della casa madre, Yorke e Greenwood sembrano più leggeri e concentrati. Sul palco i musicisti di Oxford si avvicinano come non mai al jazz e al prog-rock, suonando brani spesso lisergici e giocando molto sulle sfumature, anche grazie al tocco felpato di Skinner, che dal vivo è più a suo agio rispetto allo studio.

I volumi, come già capitava negli ultimi tour dei Radiohead, sono tenuti volutamente sotto controllo, ma il suono arriva chiaro, diretto. Pezzi come la sontuosa Skrting on the surface, la cavalcata krautrock Read the room e l’inedito un po’ beatlesiano Instant psalm risplendono in questa cornice. Yorke è in forma, canta in modo inappuntabile e parla in italiano tra un brano e l’altro: “Fa un fucking caldo”, dice a un certo punto. E aggiunge: “Non è normale”, evocando il riscaldamento globale, un tema sul quale si spende da anni. “Noi siamo gli Smile, il sorriso. Il sorriso cattivo”, aggiunge in seguito. Jonny Greenwood, al solito, fa lo slalom tra uno strumento e l’altro, passando dalla chitarra elettrica ai sintetizzatori, dalla viola all’arpa (che colora Speech bubbles).

Com’era scontato, gli Smile non suonano neanche un pezzo dei Radiohead. Ma il pubblico sembra preparato, non arrivano richieste in questo senso. La prima parte del set si conclude con You will never work in television again, brano dalle sonorità punk che evoca il “bunga bunga” di Silvio Berlusconi. E poi ecco Bending hectic, uno dei momenti migliori dell’esibizione. Nella canzone Yorke esplora ancora una volta il suo rapporto complicato con le auto (i fan dei Radiohead ricorderanno Airbag e Killer cars, tra le altre) e racconta la storia di un uomo (lui?) che sta guidando una macchina d’epoca su una strada di montagna, in Italia, con una persona al suo fianco. A un certo punto il protagonista comincia a perdere il controllo del veicolo. Mentre si avvicina al precipizio guarda il paesaggio, ammirato, e ha quasi la tentazione di togliere le mani dal volante e lasciarsi andare nel vuoto. Poi il pezzo ha una brusca evoluzione, che non è chiaro se sia la descrizione della caduta o di una sterzata per mettersi in salvo, e si alza un muro di chitarre, accompagnato da un gioco di luci sul palco. È un momento catartico.

Sono passate le undici. Preso un lungo applauso, il trio torna dietro le quinte e risale sul palco per i bis, aperti dall’elettronica The same. A un certo punto ecco Feeling pulled apart by horses, unica eccezione al repertorio degli Smile estratta dal catalogo solista di Yorke, che canta e soprattutto suona il basso con un’energia contagiosa. Il finale è affidato a You know me!, il cui testo è un dialogo criptico tra il cantante e chi s’illude di conoscerlo davvero (una riflessione sul rapporto tra gli artisti e il loro pubblico?).

Sul finale la band approda ad atmosfere sempre più rarefatte, in un anticlimax che arricchisce un concerto di per sé già notevole. Poi, in modo ordinato e rilassato, il lungomare si svuota, e le persone affollano i bar delle vie laterali, confondendosi con i tarantini che passeggiano per le strade pedonali. Domani toccherà ai Pulp e ai Jesus & Mary Chain. Per qualche giorno, grazie al Medimex, Taranto è di nuovo come negli anni ottanta, un crocevia di musica internazionale che da queste parti sarebbe molto difficile riuscire ad ascoltare.

Nel suo libro Fumo sulla città (Fandango 2013), Alessandro Leogrande rifletteva sul futuro di Taranto oltre l’Ilva e scriveva: “La lotta contro l’alienazione è lotta contro la convinzione che nulla possa cambiare o, meglio, che tutto cambi perché nulla cambi. Il rapporto tra il lavoro, l’industria, la città, il suo territorio, la vita di ogni singolo uomo, di ogni singola donna, di ogni singolo bambino, la salute mentale e fisica di chi è operaio e di chi operaio non è, può trovare un punto d’equilibrio solo all’interno di un’alchimia molto complessa. La lotta contro lo stagno inizia da qui”. Il Medimex è a suo modo un passo fuori dallo stagno. Da solo non basta, ma portare a Taranto una manifestazione del genere è una finestra su un futuro diverso, che deve restare aperta.

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