I risultati del voto del super martedì calano sulla notte di Los Angeles e la spaccano a metà. Da una parte, senza un punto di ritrovo comune, quasi disorientati davanti a computer o televisore, i sostenitori di Bernie Sanders, che non riescono a festeggiare la vittoria del loro candidato in California. Dall’altra parte i sostenitori di Joe Biden, riuniti intorno a un palco allestito nella zona più orientale della città, un quartiere in cui le case sono strette l’una all’altra e la maggior parte dei residenti è nero. Da lì ha parlato l’ex vicepresidente degli Stati Uniti, da oggi nuovo favorito nelle primarie del Partito democratico. La sua voce ha ritrovato vigore, e ne ha motivo.
Anche se i risultati non sono definitivi, Biden ha vinto in nove stati su 14 e ha accantonato 453 delegati contro i 382 di Sanders. Al grande favorito della vigilia restano le briciole, appena quattro stati, anche se uno è la California, quello con più abitanti e con più delegati da eleggere. Solo il Maine resta da attribuire.
Los Angeles si addormenta quindi divisa in due. È l’immagine della spaccatura dell’unico partito d’opposizione a Donald Trump.
Nemmeno i risultati della California, ancora non definitivi per via del fuso orario e del voto postale, ma abbastanza netti da assicurare a Sanders la maggior parte dei 415 delegati in palio, strappano un sorriso a Rebecca Strayer, 40 anni, insegnante privata di inglese. Aveva deciso di votare per “Bernie” pochi giorni fa, convinta dalle defezioni di Pete Buttigieg e Amy Klobuchar: “È l’unica scelta realistica e moralmente onesta per quello in cui credo”, mi aveva spiegato poche ore prima, in un assolato pomeriggio già primaverile. Alla fine della giornata, nel suo appartamento immerso nel verde, non distoglie lo sguardo dalla Cnn e sospira: “Sono così avvilita”. Osserva uno dopo l’altro gli stati colorarsi di blu, il colore del partito Democratico, quello ortodosso, che la catena televisiva ha scelto per Biden: sono di Biden la Virginia, il North Carolina, Alabama, Tennessee, Arkansas, Oklahoma, Minnesota e contro ogni previsione il Massachusetts e il Texas. Gli stati azzurro chiaro, invece, indicano la vittoria del più indipendente Sanders. Sono solo quattro: a nordest il piccolo Vermont, da cui proviene il senatore; e poi il resto a ovest: Colorado, Utah e California. Il disappunto che sente Rebecca è quello di chi si rende improvvisamente conto di vivere in una bolla.
Sanders infiamma le folle e i social network ma dopo un ottimo inizio in Nevada non ha mantenuto le aspettative
Ancora è presto per capire chi sarà l’avversario di Donald Trump alle elezioni presidenziali del 3 novembre. In molti stati si devono ancora svolgere le primarie e mancano circa 1.400 delegati da eleggere in vista della convention del partito, che si terrà a Milwaukee a luglio.
Ma senza dubbio, da ieri, quella dei democratici è una corsa a due. Joseph R. Biden (classe 1942) ha vinto soprattutto al sud e soprattutto grazie all’appoggio della comunità afroamericana, che evidentemente non ha dimenticato il suo servizio al fianco del presidente Barack Obama (che però ancora non l’ha appoggiato personalmente). A poche ore dal super martedì, grazie alla defezione dei suoi due principali rivali moderati, l’ex vicepresidente è rimasto solo a presidiare l’area di centro del partito e a raccogliere i voti di chi considera le proposte di Bernie Sanders troppo radicali.
L’altro nome ancora in gara per guidare i democratici alle elezioni presidenziali è appunto quello del senatore del Vermont (classe 1941), che infiamma le folle e i social network ma dopo un ottimo inizio in Nevada non ha mantenuto le aspettative alle urne. A contendersi il suo elettorato resta ancora Elizabeth Warren, che piace soprattutto alle donne, ma che ieri ha perso contro Biden e contro ogni previsione proprio nel suo stato di origine, il Massachusetts. La sua probabile e imminente rinuncia beneficerà Sanders nei prossimi appuntamenti elettorali, lasciandolo solo a raccogliere i voti di sinistra “radical”.
Michael Bloomberg, l’ex sindaco di New York, è entrato in gioco per ultimo, ma con investimenti personali da capogiro. Visti i risultati di ieri (attorno al 15 per cento in molti stati, ma vincente solo nelle Samoa Americane) sembrerebbe aver fatto il peggior investimento della sua carriera da imprenditore multimilionario: il 4 marzo si è ritirato, annunciando il suo appoggio a Biden.
Nel primo pomeriggio, Rebecca è andata a votare insieme alla famiglia del fidanzato, Justin Rubin. Rubin, produttore cinematografico di 32 anni, ha pranzato con i genitori, quasi fosse un giorno di festa. In una città in cui le tradizioni non sono comuni e in un paese in cui le famiglie si riuniscono di rado, i Rubin ne rispettano una da decenni: quella di andare a votare tutti insieme.
“È una bella giornata”, esclama in un ampio sorriso il padre David, 72 anni, impiegato di banca in pensione, scendendo dalla sua Tesla ultimo modello. Non si riferisce solo al clima mite. “È importante e necessario votare oggi. Sento che è il primo passo per mandare a casa Donald Trump!”, dice mentre si avvia a falcate allegre verso l’ingresso della biblioteca dove sono allestiti i seggi. Si trova nel nord est della metropoli californiana, una zona esclusiva di villette e giardini ben curati. Un grande campo da golf si estende sulla sinistra.
Rubin contraddice la proverbiale riservatezza statunitense ed è più che disponibile a mostrare come si vota con il nuovo sistema digitale: “Non ho nulla da nascondere. Anzi. Sono orgoglioso di votare per Bernie Sanders”, dichiara mentre clicca sul nome del senatore, suo coetaneo, anche lui ebreo, originario dell’estremo opposto del paese, ma molto presente e rispettato in California: “Nel 2016 non avevo espresso preferenze alle primarie”, spiega Rubin. “Per quattro anni ho osservato il suo lavoro al senato, ho partecipato a vari comizi qui in città. Oggi lo voto perché è onesto, capace e integro. Serve integrità in questo paese. Farebbe un ottimo lavoro come presidente. O, almeno, darebbe filo da torcere a Trump in vista delle elezioni”. Il figlio Justin è d’accordo: “Bernie attraversa il suo momentum: raccoglie attorno a sé un grande entusiasmo. Biden è il candidato sicuro, comodo, senza sorprese, ma è piatto”, ragiona il giovane. “Non conosco nessuno che voti per lui con entusiasmo. Chi sta con Bernie è emozionato, invece. Spero sia un sentimento che contagerà anche altri stati”.
La California ha una popolazione giovane, storicamente piuttosto liberal: il profilo del votante medio di Sanders, che pochi giorni prima esclamava “Voi siete la generazione più progressista che gli Stati Uniti abbiano mai avuto”. E all’affollatissimo evento organizzato nel palazzo dei congressi di Los Angeles il 1 marzo si vantava: “La nostra non è una campagna elettorale. È un movimento multi-generazionale e multiculturale!”. Erano seguiti applausi, commozione per l’abuelito, il nonnino, come lo chiamano con affetto nella comunità latina, anch’essa determinante per la sua vittoria in California e Colorado, ma non in Texas. “È bello essere parte di questo cambiamento storico e generazionale della nostra società”, diceva quel giorno Dima Budron, 30 anni, avvocato, con il marito a un lato che annuiva sotto il cappellino e i genitori che ascoltavano orgogliosi dall’altro.
Travis Andrade, regista trentenne che vive su un placido versante delle colline di Hollywood, ha votato per il settantenne senatore del Vermont con la stessa convinzione.
Ha vissuto la ritirata degli altri candidati moderati come un incoraggiamento per concentrarsi su di lui. Anche se si aspettava non sarebbe bastato. Secondo Andrade è molto chiara la tattica dello zoccolo duro del partito, che avrebbe promesso una buona ricompensa a Buttigieg pur di farsi da parte: “Può fare quello che vuole adesso, anche il vicepresidente o il segretario di stato”, prevede. È questa strategia per rafforzare il candidato più ortodosso ed endocrino al partito che l’ha convinto a uscire di casa: “Non credo di aver mai votato alle primarie, ma questa volta era troppo importante. Voglio lanciare un segnale di cambiamento al Comitato democratico. Tra Sanders e Biden c’è un oceano. Sono agli antipodi. Uno, lo percepisco come vicino al sistema, ai poteri tipo Wall street. Bernie invece, anche se non condivido tutto il suo programma, vuole far uscire i soldi dalla politica. Per esempio, è l’unico contrario alla legge per cui le grandi corporazioni possono sovvenzionare i politici, pilotando con la loro lobbying le scelte che fanno quando sono al potere. Mi aspettavo che l’avrebbero ostacolato in tutti i modi”.
“Biden ha vinto in stati in cui non ha investito quasi nulla, né in pubblicità nè in attività porta a porta. In posti dove quasi non è andato. Com’è possibile?” – si chiede Rebecca Strayer quando ormai è chiara la vittoria del vice di Obama anche in Texas: “Sembra tutto parte della strategia della direzione del partito: la ritirata dei due moderati per spianare la strada a Biden a poche ore dal super martedì. Odiano Bernie e farebbero di tutto per bloccarlo”.
Anna Peterpaul, insegnante di inglese in pensione, fedele a Sanders fin dal 2016, risponde a un messaggio in tarda serata con un sintetico e senz’appello: “I feel bad”, sto male. Nei giorni scorsi motivava con ardore la sua scelta: “È molto facile per me spiegare perché sostengo Bernie Sanders: capisco e sento vicino il 90 per cento delle cose che dice. Parla a me. Mentre Biden continua a rivolgersi alla classe media, Sanders parla a chi non gode dei privilegi che rendono questo paese uno dei più diseguali e ingiusti al mondo”. Già prima del voto, alternava la convinzione allo scoraggiamento quando lo sguardo si alzava sul piano nazionale: “I capi del partito non capiscono perché piaccia tanto alle persone normali. Non hanno il polso della loro base. Quattro anni fa hanno fatto un casino per escluderlo e sono stati puniti con una sconfitta che quasi tutti pensavamo impossibile. Saranno altrettanto miopi oggi?”.
In un sistema fatto a due blocchi, repubblicani e democratici, per chi preferisce Sanders e considera Biden troppo di centro la delusione brucia il doppio, perché si mescola al timore che la storia si ripeta. “Ci sentiamo tutti così impotenti”, conclude Peterpaul. È un sentimento di accerchiamento, quasi di sabotaggio da parte dell’establishment che attraversa dirompente i social network, su cui i sostenitori di Sanders sono presenti più di tutti gli altri. Questa volta però, sembra prematuro gridare al complotto. Come fanno notare gli analisti, si sono ritirati due candidati troppo deboli e senza più fondi.
Chiunque tranne Trump
“Negli Stati Uniti lo spauracchio del comunismo, dei ‘rossi’ è ancora fortissimo. È un timore completamente anacronistico, immotivato e frutto dell’ignoranza”, sentenzia Daniel Heiser, 27 anni, impiegato comunale. Era in fila per entrare al comizio che Sanders ha tenuto nel centro di Los Angeles il 1 marzo. Insieme a lui, secondo gli organizzatori, 35mila persone. Mascherato dal suo beniamino politico – in completo grigio e con una parrucca che imitava i pochi capelli bianchi del senatore – scuote la testa: “Conosco persone che vivono negli stati del centro e del sud che credono davvero che Sanders trasformerebbe gli Stati Uniti in un paese tipo la Corea del Nord. È completamente irrazionale, ma lo temono quasi più che Trump”. Sarah Silverman, famosa stand up comedian, ha scaldato il pubblico di Los Angeles domenica scorsa con la stessa riflessione: “Sembra che la peggior minaccia del nostro tempo non siano i cambiamenti climatici o Trump, ma Bernie Sanders e il suo programma socialista. Prima di tutto: il socialismo non è il comunismo. Poi: Bernie è un socialista democratico. L’unico modo in cui gli Stati Uniti possono diventare come la Russia è con altri quattro anni di questo pazzo aspirante dittatore alla Casa Bianca”.
Daniel Duvet, sessantenne parrucchiere per il cinema, non vuol sentir parlare di candidati, dibattiti, programmi, ritirate strategiche. Dall’altra parte della città, in una zona di incipiente gentrificazione che in alcuni scorci sembra Tijuana e in altri la Brooklyn più radical chic, a ogni domanda sulle primarie ripete a cantilena: “Qualsiasi candidato contro Trump”. Come a dire che voterà direttamente alle elezioni presidenziali di novembre e voterà qualsiasi sia la proposta dei democratici.
Tra le aiuole ben curate delle ville che salgono all’osservatorio Griffith, uno dei luoghi più suggestivi per ammirare i proverbiali tramonti sulla città, sono comparsi molti cartelli elettorali senza nome. Non dichiarano il sostegno a nessun candidato democratico, dicono solo: “Any functioning adult 2020”. Il mantra di Duvet.
E questa sera in cui i californiani vanno a letto senza aver fugato l’incertezza su chi sarà lo sfidante del presidente in scadenza, ma con un nuovo favorito a guidare l’opposizione, il realismo politico sembra un sentimento diffuso, a metà tra la resa e la convinzione. Tutte le persone sentite in questi giorni, anche se convinte sostenitrici di Sanders, dichiarano che a novembre andranno a votare, comunque vadano a finire le primarie. È un segnale.
Nell’autunno di quattro anni fa, alcuni di loro erano rimasti a casa perché non in linea con Hillary Clinton e arrabbiati con il partito. Forse quest’anno la posta in gioco è troppo alta. Chissà se basterà per sconfiggere un presidente che ancora gode di un sostegno più che dignitoso e si può vantare di un’economia in piena salute. Oppure se lo stato più popoloso e con più votanti democratici dell’Unione dimostrerà di essere, ancora una volta, solo una bolla.
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