Un pomeriggio freddo di inverno, in una via del centro di Como, un ragazzo è seduto per terra e chiede qualche moneta ai passanti. Le persone che affollano mercatini e negozi lo sfiorano, qualcuno rischia di finirgli addosso senza neanche accorgersene. Adrian viene da Bucarest, ha 36 anni, e gli ultimi dieci li ha trascorsi in provincia di Como. Dal 2012 è uno dei cinquantamila senza dimora che vivono in Italia – a Como sono circa 350. Faceva il muratore, “ma ho lavorato anche da Mondo Convenienza e in altri posti”, dice. Sorride, nonostante il gelo. “Mia moglie e i miei due figli vivono in strada con me, ma per questi giorni più freddi sono riuscito a prenotargli un albergo”, racconta. “Lo faccio ogni volta che riesco a mettere da parte dei soldi. Voglio che stiano bene. Se loro sono sereni, lo sono anch’io”. Lui intanto continua a dormire “in stazione o nel parcheggio di qualche supermercato, come al solito”.

A Como, per il solo fatto di stare seduto per terra, sta violando la legge. Per quelli come lui non c’è più posto in città. Lo ha deciso il sindaco. Il 15 dicembre 2017, Mario Landriscina – a capo di una coalizione formata da Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia – ha emesso un’ordinanza “a tutela della vivibilità urbana e del decoro del centro urbano”. La misura vieta di “mendicare occupando spazi pubblici anche con l’utilizzo di cartoni, cartelli ed accessori vari che arrecano disagio al passaggio dei pedoni”. Doveva essere applicata per 45 giorni, ma il sindaco vuole trasformarla in un divieto permanente.

Adrian conosce bene il provvedimento. “I vigili hanno sequestrato di tutto e hanno fatto molte multe. A me non interessa”, spiega arrossito dal freddo, “mi devono portare via con la forza. Ho una famiglia sulle spalle, non scompaio per 45 giorni perché me lo dice un’ordinanza”.

Caccia all’uomo
La misura ha causato una specie di caccia all’uomo. Nel primo weekend, come ha spiegato lo stesso comune, i vigili hanno sanzionato dieci persone con multe dai 50 ai 300 euro, e sequestrato “cartoni e cappelli con i quali i questuanti chiedevano l’elemosina in maniera molesta”.

L’ordinanza è figlia del decreto sicurezza voluto dal ministro dell’interno Marco Minniti, che chiede “l’eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale” dalle città. A Como, l’eliminazione di questi fattori passa per l’allontanamento dei più poveri dal centro storico.

Adrian esce dal centro storico solo per andare a mangiare in una delle quattro mense cittadine. La notte gli capita di trovare posto in uno dei quaranta letti del dormitorio in via Sirtori. “In tutta la città, i posti per chi non ha una casa dove dormire sono duecento, più o meno tanti quanti sono i senza dimora”, spiega Roberto Bernasconi, direttore di Caritas Como. “Ma è una cifra che non tiene conto di tutti quelli che si fermano solo pochi giorni, settimane o mesi, e poi ripartono – quelli che chiamiamo transitanti”.

Nel dormitorio
Al dormitorio di via Sirtori arrivo di sera, quando la temperatura è sottozero. In giro per Como ho visto qualcuno che si sta organizzando per passare la notte in strada, rigorosamente fuori del centro. Ho anche incrociato dei volontari che stavano partendo per portargli cibo e coperte.

Nella struttura c’è chi gioca a calcetto, chi fuma e chi fa due chiacchiere davanti a una fetta di panettone. “L’ordinanza del sindaco, tra gli altri, ha avuto l’effetto paradossale di sollevare un punto che forse non era chiaro a molti: a Como ci sono molti senza dimora e mendicanti”, spiega Gianfranco Moretti, coordinatore locale dei City angels, gruppo di volontari che aiuta chi vive per strada. “Se si spostano le persone fuori del centro storico per 45 giorni non solo non si risolve il problema, ma si affronta in maniera sbagliata”, aggiunge.

Moretti ipotizza delle alternative. “Como è piena di case sfitte che si potrebbero usare”, dice. E in effetti, più di duecento immobili del patrimonio comunale – il 26 per cento del totale – sono liberi. Mentre parliamo, al centro arriva un ragazzo tunisino. Indossa una felpa e dei jeans, trema e dice di aver vomitato più volte. La struttura è piena, ma per le emergenze si trova sempre una soluzione. Molti degli ospiti sono stranieri. “Quattro per ogni italiano”, dicono i volontari. Nella maggior parte dei casi si tratta di migranti arrivati a Como dall’estate del 2016, diretti verso l’Europa del nord, ma respinti alla frontiera svizzera. Ripercorrere quello che è successo in quelle settimane è fondamentale per capire come nasce l’ordinanza del sindaco, e la trasformazione di Como in questo anno e mezzo.

La città accogliente
Nel luglio 2016, i migranti hanno provato ad attraversare il confine con la Svizzera 4.834 volte, ma ci sono stati 3.406 respingimenti. Le forze dell’ordine salivano sui treni provenienti dall’Italia per identificarli e rimandarli indietro, mentre i boschi venivano pattugliati da droni con raggi infrarossi. Le persone respinte alla frontiera sono dovute tornare a Como, e avevano trovato un posto dove stare e dormire nel parco davanti alla stazione. In agosto erano quattrocento, di cui duecento minori non accompagnati. In quei momenti Como aveva riscoperto il suo status di città di confine, ma aveva reagito bene.

Lo racconta Bruno Magatti, assessore alle politiche sociali fino al giugno 2017. Oggi con la lista Civitas si batte contro l’ordinanza per il decoro del sindaco, con tanto di ricorso al tribunale amministrativo regionale. “Il comune ha una tradizione molto lunga nell’accoglienza dei migranti, vista la sua posizione di confine”, spiega.

Durante un comizio del candidato sindaco Mario Landriscina a Como, giugno 2017. (Gianni Cipriano)

Prima della chiusura della frontiera svizzera era già stato predisposto il coordinamento cittadino per la grave marginalità. Mentre per affrontare la situazione dei quattrocento migranti davanti alla stazione, le associazioni e il prefetto avevano lavorato insieme. Erano stati installati servizi igienici ed era stata potenziata la pulizia dell’area.

Nel settembre 2016 è nato un campo di accoglienza temporaneo gestito dalla Croce Rossa. In un anno ha ospitato oltre cinquemila migranti – di cui duemila minori – secondo La Provincia.

Tutto questo aveva portato a una manifestazione di solidarietà ai migranti respinti dalle autorità svizzere. “Non c’erano segnali evidenti di sofferenza da parte dei comaschi, che anzi hanno collaborato per aiutare le persone in difficoltà”, dice Magatti. Poi, però, qualcosa è cambiato, e il cambiamento è stato tanto veloce quanto dovuto a responsabilità e volontà ben precise.

La città respingente
Tutto comincia con le elezioni locali del giugno 2017. Nei mesi che le precedono, cambiano le parole d’ordine che fino ad allora avevano caratterizzato la risposta della città all’emergenza migranti. Da accoglienza, aiuto, mediazione si passa a “Como preda dei migranti, la gente è stufa”. È quello che dichiarano ai mezzi di informazione i candidati del centrodestra. Gli stranieri sono accusati di minacciare il decoro e la sicurezza, nonostante la città sia sempre ai primi posti nelle classifiche sulla qualità della vita.

In campagna elettorale si soffia sempre di più nella bolla della paura, sostenendo che in città c’è un’emergenza clandestini, gli immigrati tolgono soldi e diritti ai comaschi. La retorica del “prima gli italiani” paga e permette alla coalizione di centrodestra guidata da Mario Landriscina, medico affascinato dal pugno duro mostrato da Rudolph Giuliani a New York, di vincere le elezioni.

“Da quel momento non hanno più avuto spazio i discorsi a favore dell’accoglienza”, spiega Magatti. “È cambiato il fondale del teatro. Prima si voleva dare una prospettiva di serenità, oggi c’è un fondale cupo, dove sono cambiati registi e attori”.

Vengono elaborate due categorie sociali: i cittadini perbene e i cittadini permale

I nuovi amministratori hanno vinto cavalcando gli istinti peggiori delle persone e costruendo un racconto della realtà che spesso prescindeva dalla realtà stessa. Il modello di accoglienza che si stava creando – con i suoi pregi e i suoi difetti – è entrato in crisi.

La strumentalizzazione delle paure ha poi permesso a chi governa la città di togliere da sotto la luce dei riflettori sfide ben più urgenti, e che stanno molto a cuore ai comaschi: dal cantiere infinito sul lungolago – mai completato per problemi tecnici e costi eccessivi – all’abbandono dell’area dell’ex Ticosa, passando per il rischio che sia privatizzata la gestione provinciale dell’acqua.

L’agenda politica si è focalizzata sul “degrado”, e soprattutto sulla sua percezione.

L’ultimo atto
L’ordinanza del dicembre 2017 è solo l’ultimo atto di questa ossessione, che ovviamente ha finito per prendere di mira i più poveri.

Nel settembre 2017 il sindaco ha ordinato il taglio degli alberi e la rimozione delle panchine in piazza San Rocco, vicino al centro di accoglienza temporaneo. Per la giunta era fondamentale impedire ai migranti di stare proprio lì, porta d’ingresso della città. Poi è stato tolto l’allacciamento all’acqua corrente all’autosilo di via Val Mulini, dove una cinquantina di persone aveva trovato riparo dai primi freddi. Dopo lo sgombero dell’area, il comune ha stanziato ventimila euro per sbarrare l’ingresso con transenne e filo spinato.

In precedenza, alcuni abitanti del quartiere avevano scritto sulla pagina Facebook Como ai comaschi per protestare. “È impossibile vivere qui. La sera è come se ci fosse il coprifuoco: non esce la gente, le case non valgono più niente”, si lamenta Domenico, tra i firmatari di una petizione sulla situazione dell’area. Sono stati anche organizzati dei presìdi, ma la partecipazione ha raramente superato le 20-30 persone. C’è sempre stata una scarsa adesione a iniziative del genere, ma la criminalizzazione dei migranti è andata avanti in un silenzioso consenso generale.

Specchio del paese
Quello che sta avvenendo a Como non è un fatto nuovo in Italia. Già nel 2008 Roberto Maroni, con il suo pacchetto sicurezza, aveva dato ampio spazio di manovra ai sindaci in materia di sicurezza. La corte costituzionale si era poi pronunciata per l’incostituzionalità della legge. Ora è arrivato il decreto Minniti. A Domodossola una minorenne sorpresa dalle telecamere a orinare nel centro storico è stata multata per cinquemila euro. Il sindaco del Pd di Bari ha ideato la rubrica “Lo schifoso del giorno”. A Bologna il daspo urbano ha colpito alcune persone che dormivano sotto i portici. A Torino l’ossessione per la sicurezza si è tradotta nell’ordinanza che vieta di bere all’aperto dopo le otto di sera.

Anche nella campagna elettorale in corso, il tema della sicurezza è centrale. Secondo Silvio Berlusconi i soldati che “stanno in caserma ad annoiarsi, tutti, dopo le operazioni della mattina, devono andare nelle strade delle grandi città a garantire la sicurezza dei cittadini”. Il segretario della lega Matteo Salvini della Lega non perde occasione per criminalizzare i migranti e dice di volere “fermare questa invasione, organizzata e finanziata per cancellare la nostra cultura”.

Gli fa eco Attilio Fontana, candidato leghista del centrodestra alla regione Lombardia: “Se sarò eletto la prima cosa che farò è espellere i centomila clandestini che ci sono in Lombardia”. Matteo Renzi, invece, li vuole aiutare direttamente a casa loro – traducendo così un sentimento condiviso, anche a sinistra. Nessuno di loro sembra avere ricette concrete – e coperture economiche – per affrontare i temi legati alla sicurezza e all’immigrazione, ma intanto a livello locale queste idee diventano strumenti concreti contro poveri e stranieri.

“Quello che è successo a Como non mi stupisce, la retorica su decoro e sicurezza ha subìto un’accelerazione”, spiega Tamar Pitch, sociologa del diritto e autrice di Contro il decoro. “Al centro di queste misure non c’è la questione della sicurezza ma, come dice anche il decreto, la percezione della sicurezza. Ma la sicurezza di chi?”, si interroga Pitch. “Quelli che dormono sotto i ponti, che chiedono l’elemosina, lavano i vetri, non sono forse cittadini? Anche loro vivono in città, e il sindaco deve occuparsi anche di loro, delle loro dignità e, in ultima analisi, del loro decoro”.

Al contrario, i sindaci si sono adoperati unicamente per proteggere la classe media e i suoi bisogni. “Vengono elaborate due categorie sociali: i cittadini perbene e i cittadini permale”, spiega Pitch, “questi ultimi vengono buttati fuori dalle città, allontanati dalla vetrina”.

Sharif e gli altri
Sono persone come Sharif, ragazzo gambiano di 18 anni, che incontro una sera fredda di pioggia in una Como deserta. Sharif è arrivato nell’ottobre 2017, dopo aver passato sei mesi in Libia, tra campi di lavoro e centri di detenzione. “Ho sentito la mia famiglia solo una volta da quando sono arrivato, non ho soldi per chiamarla”, mi spiega. “È strano e triste essere qui oggi”.

Sharif spera di trovare un lavoro, ma intanto vive nel container in alluminio del centro di accoglienza di via Sirtori. La sua storia somiglia a quella di molti altri. Ragazze e ragazzi che si incontrano passeggiando per le strade vicine alla stazione. C’è Mohammed, che viene dalla Guinea Bissau e ha 24 anni, e tra il 2016 e il 2017 ha provato ad attraversare la frontiera tre volte senza mai riuscirci.

Don Giusto della Valle nella parrocchia in cui ospita migranti e senza dimora a Como, giugno 2017. (Gianni Cipriano)

C’è Clara, eritrea di 24 anni, che era riuscita ad arrivare in Svizzera, ma è stata poi rimpatriata in Italia, con una bambina piccolissima. E c’è Badou, vent’anni, del Sudan, che ha rinunciato ad attraversare il confine con la Svizzera. Si dice fortunato ad avere un letto nel centro di accoglienza, ma si sente in prigione: “I coprifuoco serali, ma soprattutto le giornate che scorrono via uguali una dietro l’altra. Vorrei lavorare, fare qualcosa”.

A Como, però, le loro storie sono gradualmente sparite dal racconto collettivo. Al centro della scena sono finite parole e azioni come quelle del gruppo Veneto fronte skinhead, che nel novembre 2017 ha fatto irruzione nella sede dell’associazione Como senza frontiere per leggere un comunicato infarcito di razzismo e minacce. Il sindaco ha condannato il gesto, ma non ha partecipato al corteo antifascista. La vicesindaca ha invece condiviso il post di Matteo Salvini, in cui si legge che gli skinhead non sono che “quattro ragazzi, il problema è l’immigrazione”.

Quelli che ci provano
Nonostante a Como tiri ormai un’aria del genere, qualcuno continua a lavorare per fare in modo che la parola accoglienza non sia definitivamente cancellata dal vocabolario della città.

I volontari del Gruppo della colazione, per esempio, non hanno rinunciato a portare cibo e bevande calde a chi vive in strada. I vigili hanno minacciato di multarli, ma in molti hanno firmato petizioni per sostenerli ed è stato organizzato anche un “bivacco solidale” davanti all’ex chiesa di san Francesco. Due dei cartelli in piazza sintetizzavano il pensiero dei partecipanti. “Più diritti meno Minniti”, si leggeva su uno; “La solidarietà è sempre decorosa”, era scritto su un altro.

Tra chi da sempre si batte contro discriminazioni e criminalizzazioni c’è anche don Giusto della Valle, che celebra e vive a Rebbio, quartiere nella periferia nord di Como. Lo incontro nella sua parrocchia, dove dal 2011 ospita migranti e senza dimora. Al piano di sopra ci sono alcune ragazze nigeriane con i figli, mentre nella palazzina di fronte vivono dei ragazzi di varie nazionalità. In totale sono sessanta persone.

A Como, in piccolo, si sta consumando una spaccatura che sta attraversando l’Italia intera

“Il clima è disteso, c’è grande solidarietà nel quartiere”, dice della Valle, mentre un signore italiano sta portando degli scatoloni pieni di giocattoli per i bambini. Da poco alcuni ragazzi hanno cominciato a lavorare e a guadagnare qualcosa, e ora vivono in una casa lì vicino, pagando l’affitto. Tra loro c’è Moustafa, guineano di 24 anni. Mi mostra un dente rotto, gliel’hanno spezzato alcuni agenti in Libia. Sogna di fare il calciatore, ogni tanto i ragazzi del quartiere lo chiamano per invitarlo a giocare con loro.

Quando chiedo a della Valle cosa dobbiamo aspettarci per il futuro di Como è categorico. “In questa parrocchia nel 2017 abbiamo fatto 87 funerali e 21 battesimi. Cosa ne sarà di Como fra trent’anni? C’è un calo demografico evidente. I migranti non sono un problema, ma una risorsa per la città”.

Lasciandosi alle spalle la sua parrocchia, la sensazione è che a Como, in piccolo, si stia consumando una spaccatura che sta attraversando l’Italia intera. Da una parte c’è chi immagina un paese fondato su concetti come ordine e sicurezza, dall’altra c’è chi cerca di costruire comunità in nome dell’integrazione e dell’accoglienza. Oggi sembra che i primi stiano avendo la meglio.

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