A bordo della Phoenix. (Dr)

Arriviamo al porto di Pozzallo di mattina presto. Il dispositivo è schierato: la Croce rossa per il controllo medico, la polizia per l’accompagnamento nel centro di prima accoglienza, gli uomini della guardia costiera e quelli di Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne. Tutti lì al molo a organizzare lo sbarco, che ormai ha il sapore di un rituale consolidato, una routine quasi monotona.

Mentre scendono a gruppi di dieci dopo lo screening sanitario a bordo, i nostri 217 passeggeri hanno un sorriso che è quello della rinascita. Alcuni si mettono a pregare a terra, altri si fanno il segno della croce. Le loro preghiere hanno un senso: a cento metri di distanza, abbandonato in fondo al piazzale del porto, c’è ancora il relitto del barcone che l’estate scorsa ha trasportato 45 cadaveri nella stiva, estratti poi uno a uno qui al molo. Loro non lo sanno, ma certo sanno che l’hanno scampata bella.

L’arrivo dei migranti a Pozzallo


Le ultime ore di viaggio si sono svolte nella quiete. Il mare era piatto, la Phoenix viaggiava lentamente per non arrivare al porto nel cuore della notte. Loro si sono svegliati all’alba, guardando in lontananza le coste italiane prendere forma. Hanno pulito scrupolosamente il ponte su cui hanno viaggiato e si sono poi messi in fila per l’accesso a quella che si aspettano essere la loro nuova vita. Cosa sanno di quello che li attende? Quasi niente. Il loro progetto migratorio è vago (“forse resto in Italia, oppure vado in Germania, poi decido”), i loro network inconsistenti (“ho un po’ di amici, appena mi connetto a Facebook li contatto”), la loro percezione della realtà europea caricaturale (“è facile avere i documenti e un lavoro qui da voi, vero?”).

Oggi che i siriani non passano quasi più per la Libia, ma prendono prevalentemente la rotta orientale, qui in Sicilia arriva un’immigrazione più stracciona, più sbrindellata, con le idee assai meno chiare

Questa è l’immigrazione proveniente dall’Africa occidentale: un’immigrazione di scoperta, un salto nel vuoto. La differenza con i siriani che arrivavano a migliaia l’anno scorso è palpabile: loro sbarcavano con in tasca i numeri di telefono dei parenti in Germania, Olanda, Svezia e le migliaia di dollari necessari per continuare il viaggio. Sapevano dove si prendeva il treno per Milano e dove poi contattare il passeur per attraversare in modo agevole le varie frontiere interne di Schengen. Quando toccavano terra, tiravano fuori il tablet o lo smartphone e chiedevano: “Dove posso trovare un wi-fi per avvisare la mia famiglia che sono arrivato?”.

Oggi che i siriani non passano quasi più per la Libia, ma prendono prevalentemente la rotta orientale (Grecia, Macedonia, Serbia, Ungheria e poi via a nord), qui in Sicilia arriva un’immigrazione più stracciona, più sbrindellata, con le idee assai meno chiare. E che, soprattutto, non usa necessariamente l’Italia come paese di transito, come avveniva nel 2014. Sarà per questo che quest’anno si ha una percezione differente, nonostante i numeri degli arrivi nel Mediterraneo siano sostanzialmente identici? Sarà per questo che il nostro governo si allinea alle richieste europee di identificare tutti e rimpatriare più gente possibile? Sarà per questo, forse, che è stata lanciata la famosa missione Eu Navfor, che punta a distruggere i “mezzi usati dai trafficanti”?

Anche questa missione appare scollata dalla realtà. È un anacronismo. Per i viaggi in mare non si usano più tanto i barconi. I migranti partono a bordo di gommoni. Lo raccontano tutti: li caricano a gruppi di 100-110 e li mandano allo sbaraglio. Al comando non c’è nessuno; quando va bene uno dei migranti che ha la pretesa (spesso infondata) di avere qualche conoscenza di navigazione. Non hanno bussola o gps. “Sempre dritti verso l’Italia”, gli dicono e loro partono. Anche i prezzi si sono abbassati notevolmente: i nostri 217 passeggeri hanno pagato 1.200 dinari libici ciascuno, che al cambio nero di Tripoli equivalgono a circa 400 euro. I siriani l’anno scorso pagavano per viaggiare sui barconi di legno fino a duemila dollari.

Solo la presenza permanente dei mezzi di soccorso al largo delle coste libiche – la nave del Moas su cui abbiamo viaggiato per cinque giorni, quelle noleggiate da Medici senza frontiere e quelle che gli stati hanno messo a disposizione della missione Triton dopo il naufragio del 18 aprile – impedisce l’ecatombe.

Le risposte europee sembrano più che altro un esercizio di retorica, la volontà di mostrare a opinioni pubbliche impaurite che qualcosa si sta facendo per fronteggiare i flussi

In queste condizioni, quale obiettivo pensa di raggiungere la missione Eu Navfor? Distruggere dei gommoni invisibili ai radar finché non partono? Sgominare reti di trafficanti che agiscono sulla terra e mai si avventurano in mare? Le risposte europee sembrano più che altro un esercizio di retorica, la volontà di mostrare a opinioni pubbliche impaurite che qualcosa si sta facendo per fronteggiare i flussi. Ma quando ci si misura con la realtà del terreno, si vede come ci sia ben poco da fare.

I poliziotti al molo lo sanno benissimo. “Li portiamo al centro di prima accoglienza per l’identificazione”, dicono. “E poi?”. “Poi li distribuiscono nei vari centri in giro per l’Italia”. “E poi?”. I poliziotti alzano il sopracciglio. Sanno che si perderanno in giro per l’Italia o per l’Europa senza documenti – o con in tasca richieste d’asilo respinte o decreti di espulsione a cui non hanno obbedito.

Questi 217 uomini donne e bambini, che mai avranno l’asilo perché non hanno titolo a ottenerlo secondo la legislazione corrente, dovranno trovare una loro strada, cercando di barcamenarsi tra i risvolti delle leggi, i ricorsi e il lavoro al nero. Il loro obiettivo è uno solo: farsi una nuova vita. Sono giovani e forti e probabilmente ce la faranno. Ma non ci sarà nessuno ad aiutarli. Ci salutiamo tra abbracci e strette di mano: “Thank you, thank you, Italy”. Noi gli diciamo: “Good luck”. E sappiamo che ne avranno bisogno. Perché il peggio è alle spalle, ma il meglio non sarà per domani.

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