La Genova stretta dei caruggi disorienta e accoglie, priva d’orizzonte ma piena di voci e passi. Quella che attraverso camminando verso il quartiere Sampierdarena, invece, è quasi il suo opposto. Costruita a misura di tir più che di esseri umani, mi costringe ad aggirare piloni, superare svincoli, sfilare ai lati di strade dense di traffico. Il mare, che avevo sbirciato tra gli attracchi del porto antico, scompare dietro ai grattacieli e alle sopraelevate. Arrivato al quartiere cerco l’accesso al bacino, in cui è concentrato il traffico merci dello scalo genovese.
L’atmosfera di via San Pier d’Arena è dimessa. Molti sono i negozi chiusi, e non solo per le misure legate alla pandemia. Fuori da un meccanico per moto c’è un ragazzo in fila, mascherina sul viso e casco in mano. Gli chiedo come si possa entrare nel porto. “Impossibile!”, risponde, “hanno fatto in modo che non ci si possa andare. Al varco chiedono i documenti, non si passa”. Dice proprio “hanno fatto in modo”, come se desse voce alla memoria delle generazioni più anziane. “Mia nonna, che ha novant’anni ed è cresciuta a Sampierdarena”, mi dirà più tardi una donna, “ricorda che da bambina andava in spiaggia”. Il periodo in cui il quartiere ha cominciato a perdere l’accesso al mare è testimoniato dai nomi coloniali assegnati negli anni trenta a pontili e banchine: Libia, Etiopia, Eritrea, Somalia…
Il ragazzo con il casco però mi dà un suggerimento: “Se vuoi guardare il porto sali al sesto piano dell’autosilo del centro commerciale”. È vero: di lì si vedono i terminali, gli ormeggi che accolgono le navi, i silos argentei, le muraglie colorate di container e l’orizzonte marino. Tra il mare aperto e il porto c’è la diga foranea che attenua il moto ondoso consentendo ai bastimenti di attraccare, e che secondo l’Autorità di sistema portuale, il sindaco, i governi regionale e nazionale e perfino l’arcivescovo è irrinunciabile sostituire con una nuova, più al largo, che dia spazio di manovra a navi lunghe anche 400 metri.
Perché (e per chi) una nuova diga
Il progetto della nuova diga foranea è la risposta delle istituzioni portuali a un fenomeno che tutti conosciamo, almeno a partire dal recente blocco del canale di Suez: il “gigantismo navale”. Il gigantismo navale non è una necessità metafisica, ma una scelta di convenienza fatta dagli operatori che controllano gran parte del trasporto marittimo. L’analisi costi-benefici del progetto, commissionata dall’autorità portuale di Genova, riconosce questa situazione: nel trasporto dei container via nave, vi si legge, “pochi grandi attori operano in regime di oligopolio”. Le prime dieci aziende coprono l’83 per cento dell’offerta mondiale, utilizzando solo il 51 per cento delle navi, “segno che le principali società utilizzano navi di maggiori dimensioni”. Le prime due di queste dieci compagnie, la Maersk e la Msc, sono unite nell’alleanza 2M, che dispone di circa un terzo della capacità di stiva al livello mondiale. Da qualsiasi punto di vista la si osservi la dimensione di questi operatori è un problema tanto economico quanto di democrazia, ma la politica finge che sia ineluttabile.
L’analisi costi-benefici sostiene che “in assenza della nuova diga foranea (…) il porto di Genova si troverà giocoforza escluso dai traffici contenitori extra Mediterraneo”; al contrario, realizzarla “permetterà al porto di Genova di non avere limiti allo sviluppo dei traffici”. Le proiezioni che con la nuova diga prevedono un raddoppio del traffico di container nel 2029 (rispetto al 2019), per poi continuare a crescere, sarebbero state elaborate sulla base di “interazioni con gli operatori”. Ovvero, ipotizza Il Fatto, “sulle promesse dei terminalisti, i primi interessati alla realizzazione dell’opera”.
Si finisce così per respirare lo stesso ottimismo smisurato e per alcuni interessato che circondava pochi anni fa la nuova via della seta, a cui in effetti nel 2018 l’allora ministro Danilo Toninelli riconduceva gli investimenti pubblici nel retroporto genovese. Anche se oggi di quel progetto nessuno sembra voler più parlare, l’idea di sviluppo rimane precisamente la stessa: produzioni localizzate dove lavoro e territorio sono privi di tutela, e una logistica che abbraccia, o soffoca, il resto del pianeta.
Cominciare una diga senza sapere come finirla
Della diga foranea si parla da un decennio, ma i primi atti formali nella progettazione risalgono all’aprile del 2018. Dopo il tragico crollo del ponte Morandi, il 14 agosto di quell’anno, la diga entra nel cosiddetto decreto Genova. Ma è solo in occasione di un altro shock, quello della pandemia, che vengono individuate le linee di finanziamento. Le elenca l’autorità portuale nel dossier pubblicato a fine febbraio 2021, alla voce “Costo e finanziamento dell’opera”: 500 milioni di euro dal Recovery fund, 250 con fondi dell’autorità portuale (che è un ente dello stato) e 200 dal ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Questi ultimi, però, non risultano ancora assegnati, ma sono solo oggetto della “volontà del governo di trovarli”, come scrive Il Secolo XIX.
In ogni caso si tratta di un totale di 950 milioni di euro, tutti a bilancio pubblico e, nel caso dei fondi dell’autorità, a debito. La cosa strabiliante è che l’importo copre solo la “fase A” dei lavori, cioè l’allontanamento della diga dalle banchine per un primo tratto. Per il completamento dell’opera servirebbero, da preventivo, altri 400 milioni, che al momento non ci sono. Nonostante questo, il presidente dell’autorità ha annunciato l’apertura dei cantieri nel 2022.
Non sono solo i soldi a mancare, ma anche la soluzione a un grosso problema tecnico: la realizzazione della “fase B”, a causa dell’altezza delle strutture portuali necessarie alle navi giganti, invaderebbe lo spazio aereo dell’aeroporto Cristoforo Colombo. Così, mentre sulla realizzabilità della “fase B” rimangono grandi dubbi, a essere certamente beneficiati dalla “fase A” sono la Msc, che ha in concessione il terminale Bettolo fino a oltre il 2050, e il Gruppo Spinelli. Al punto che c’è chi parla di “diga a spese del contribuente (che) serve solo a Msc e Spinelli”, dando voce a quella che secondo la testata specializzata Ship2Shore sarebbe una convinzione diffusa “a Genova e non solo”.
Il “lungomare” di Sampierdarena
Per coinvolgere i cittadini nella decisione, l’autorità portuale ha promosso un “dibattito pubblico” articolato in diversi incontri, tra gennaio e febbraio 2021. La parola “partecipazione” è spesso evocata, ma le istituzioni sono schierate a favore della diga, gli aspetti tecnici dell’opera competono giustamente ai tecnici, e il modello di società che il progetto lascia trasparire non è in discussione in quella sede. Eppure tale è il bisogno di vera partecipazione che diversi gruppi presentano le loro osservazioni al dibattito (Quaderni degli attori), a volte anche solo per denunciare l’inadeguatezza dei documenti che ne costituiscono la base, come l’ottimistica analisi costi-benefici.
Tra i quaderni presentati c’è anche quello del comitato di residenti di Sampiedarena di cui fanno parte Silvia Giardella e Fabio Valentino. La loro casa si affaccia sul lungomare Canepa: un lungomare da cui non si vede il mare, diventato da tre anni una tangenziale a sei corsie, la cosiddetta gronda a mare (che è altra cosa dalla “gronda di Genova”, opera autostradale da anni ferma alla fase progettuale). Dal loro balcone, avvolti dal rumore del traffico, mi indicano a uno a uno gli ostacoli che si frappongono tra lungomare e mare: l’alto muro che delimita l’area portuale, sette binari ferroviari su cui transitano convogli di merci, una strada sopraelevata e infine le banchine, affollate di container e silos. “Se sarà realizzata anche la fase B della nuova diga”, dicono, “le enormi navi portacontainer attraccheranno in senso parallelo alla costa, e non più a pettine come ora. Così anche dai piani alti di queste case non si vedrà più l’orizzonte marino”.
Il comitato ha denunciato il dramma dell’inquinamento, ha disegnato il progetto di una copertura del lungomare per attenuare il rumore, ha dato voce al desiderio di un accesso al mare per il quartiere. “Da anni cerchiamo un dialogo con le istituzioni ma le nostre richieste restano quasi tutte senza risposta. Così è stato anche nel dibattito pubblico sulla diga. Solo sulla copertura della strada abbiamo avuto un impegno a intervenire da parte del sindaco, ma come e quando si concretizzerà non lo sappiamo ancora”.
Una mitigazione del danno è certamente il minimo a cui questi abitanti di Sampierdarena hanno diritto, ma la loro vicenda sembra dimostrare anche altro. E cioè che le esistenze comuni hanno quasi tutto da perdere dal sogno di “non avere limiti allo sviluppo dei traffici” che accomuna istituzioni e oligopoli privati. Un sogno così smisurato da rendere ogni mitigazione possibile una coperta troppo corta.
Tra porto e città
La piazza più maestosa di Genova è intitolata a Raffaele De Ferrari, imprenditore e filantropo che nel 1875 finanziò a fondo perduto l’ampliamento del porto. Soldi privati a beneficio del pubblico: il contrario di ciò che accade oggi. È in quella piazza che ho appuntamento con Agostino Petrillo, sociologo che di Genova conosce ogni strada e ogni vicenda, fin le più minute, e ne parla intrecciando passione e disincanto.
Mentre mi guida tra i palazzi del sestiere Portoria, dice che nell’analisi costi-benefici “la città rimane accessoria, secondaria rispetto agli interessi e agli appetiti che ci sono intorno al progetto”. Manca “una riflessione integrata” sulle molteplici crisi della città, “come evidenzia il poco interesse per le ricadute sociali e urbanistiche della realizzazione della diga”. Lo scarso dialogo tra le élite che determinano lo sviluppo del porto e la città non è affatto una novità, ma un dato storicamente consolidato, spiega.
Come in un puzzle che va finalmente componendosi, dopo aver parlato con Petrillo le tessere vanno a posto quasi da sole. Le opere sulla terraferma che accompagnano la diga foranea non sono quindi il frutto di un dialogo tra porto e città, ma dell’affermarsi egemonico degli interessi che operano nel trasporto merci via mare. Grandissimi operatori che si espandono nella logistica terrestre, dai terminali del porto fino ai magazzini di smistamento nell’entroterra. Come quello della Msc nella pianura bergamasca. Poi ci ci sono le crociere, che a Genova vedono la Msc come primo operatore, e la conseguente turistificazione della città, che prende quota con la ristrutturazione dell’edificio Hennebique, a due passi dalle stazioni marittima e ferroviaria, intrapresa dalla Vitali Spa, costruttore edile che è anche socio della Msc in quel magazzino bergamasco.
Una “concorrenza” a misura di oligopoli
José Nivoi sembra un ragazzo, ma lavora come portuale già da 15 anni. Lo incontro a Sampierdarena davanti alla sede del suo sindacato, l’Unione sindacale di base (Usb). Gli chiedo se la nuova diga porterà posti di lavoro. “Difficile dirlo, visto che l’autorità portuale non sta aggiornando il piano dell’organico corrente. Insomma, non è chiaro neppure quante persone ci lavorino oggi”, risponde.
Quella dell’occupazione generata dalla nuova diga è una faccenda sfocata almeno quanto quella della “fase B”. Le cifre vanno dai 40mila nuovi addetti evocati dall’imprenditore Aldo Spinelli fino ai 1.800 occupati aggiuntivi nella movimentazione portuale ipotizzati dall’analisi costi-benefici, da raggiungersi nel 2040. Stima dalla quale andrebbero sottratti, secondo il gruppo di Fridays for future che ha seguito il dibattito, gli autisti di camion, lasciando quindi per l’occupazione genovese solo fra i trecento e i cinquecento lavoratori.
Se lo scopo dell’investimento fosse creare occupazione (ma con tutta evidenza non lo è), ci sono certamente modi migliori per farlo. Dalle parole di José si capisce che il sì o il no alla diga non è il modo in cui il sindacato guarda alla vicenda, cercando piuttosto di spostare la discussione sul lavoro e sulla città. “Al momento le relazioni di lavoro nel porto in qualche modo reggono, ma l’attacco da parte dei datori di lavoro è costante, ed è fatto di richieste di flessibilità tra più porti, distanti chilometri l’uno dall’altro, di tentativi di applicare contratti peggiorativi e di precariato”. Gli domando se si sta affermando l’autoproduzione, ovvero la possibilità da parte degli armatori di utilizzare i marinai per effettuare le manovre di carico e scarico che spetterebbero ai portuali. “No, quella qui non passa: quando gli armatori ci provano i lavoratori bloccano il porto, e così non gli conviene insistere”, risponde con orgoglio. Solo dopo averlo salutato apro il quotidiano che avevo in tasca, e leggo che l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm) si è espressa a favore dell’autoproduzione. Una scelta gradita agli armatori, compresi gli oligopolisti, dalle conseguenze occupazionali devastanti, fatta nell’ambiguo nome “della concorrenza e del mercato”.
Non c’è una seconda occasione
Il “quaderno” presentato da Fridays for future fa critiche puntuali alle proiezioni dell’analisi costi-benefici, considerandole poco fondate. Ma ciò che lo rende più interessante è che si eleva sopra il dibattito, e sopra la dimensione cittadina. Il puzzle che si era composto fin qui diventa così la tessera di un puzzle più grande ancora. “Al sindaco piace ripetere che questa è un’opera per il futuro, di cui godranno le prossime generazioni”, mi dice Matteo Ellena del gruppo genovese del movimento, “ma è un futuro guardato con gli occhi del passato. Il modello fatto di enormi navi che viaggiano a combustibili fossili per portare da una parte all’altra del mondo merci nuove, che verranno rapidamente sostituite da merci ancora più nuove, è un modello consumistico sbagliato, e non ci sono accorgimenti che possano renderlo sostenibile”.
Nel progetto della nuova diga non c’è traccia di questa consapevolezza del limite. Anzi, al contrario: la sua ragion d’essere è dichiaratamente quella di “non avere limiti”.
“Se ci si pensa”, dice Ellena, “la stessa vicenda della fase B illustra in piccolo questa mentalità: c’è un limite fisico, quello dell’aeroporto, e si decide di ignorarlo, di andare avanti come se tutto si potesse risolvere in un secondo momento. Quello che diciamo noi è invece che non possiamo permetterci di insistere su questa strada, perché una seconda occasione non c’è, è adesso che bisogna cambiare”.
Mi appunto queste parole e poi, dal poggio del parchetto nel quartiere centrale di Carignano in cui ci troviamo, alzo gli occhi verso il porto. Che vi attracchi un bel pezzo del futuro di Genova è sicuro. Ma quale, e come, è una scelta che dovrebbero poter fare i genovesi avendo in mente le proprie condizioni di vita e le proprie aspettative, e non pressati dall’unanimismo della classe politica, dalla “partecipazione” interessata e, soprattutto, dagli interessi degli oligopolisti del trasporto merci.
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