Il 26 e il 28 marzo 2018 si svolgeranno le elezioni presidenziali in Egitto in un contesto ancora più democraticamente degradato – se possibile – di quello dell’epoca di Hosni Mubarak. Ogni candidato alla presidenza che ha tentato di presentarsi alle elezioni è stato arrestato, picchiato o mandato in esilio. L’unica candidatura accettata è quella di un fedelissimo del generale Abdel Fattah al Sisi, il presidente in carica.
Per gli attivisti egiziani è tempo di ricordare le ragioni profonde della rivoluzione. In questo contesto di amnesia politica e di censura della memoria rivoluzionaria, boicottare le elezioni e ricordare la rivoluzione – e le sue ragioni più profonde –sembra la cosa più concreta che possono fare gli attivisti.
L’idea di documentare i mitici 18 giorni di piazza Tahrir era venuta subito dopo la caduta di Mubarak: lo storico Khaled Fahmy era stato incaricato dopo la rivoluzione di creare un archivio statale, ma il progetto non era andato in porto “perché tirava ancora un’aria di sospetto e i testimoni temevano che le loro parole fossero utilizzate contro di loro”, ricorda Madamasr. Inoltre la legge egiziana prevede di tenere chiusi gli archivi per almeno cinquant’anni. La palla è quindi in mano a chi era in piazza e ai citizen journalists.
Era il 25 gennaio 2011 e in piazza Tahrir, per 18 giorni, il popolo egiziano si è presentato agli occhi del mondo unito, pacifico, profondamente democratico. Arrivava come una sorpresa per tutti i commentatori della regione, ma soprattutto per i manifestanti stessi. Oggi, sette anni dopo, provano a tirare le somme e a capire che cosa è successo in quei giorni.
Il responsabile del sito Egyptian Street, nato durante la rivoluzione, ricorda che oggi, “con il ritorno del regime e delle teorie della cospirazione, la rivoluzione è diventata per alcuni una cospirazione di agenti stranieri che desideravano distruggere lo stato e il popolo”.
A proposito della nuova storia ufficiale egiziana sponsorizzata dal generale Al Sisi, Warda Mohamed di Orient XXI aggiunge: “Dopo il 30 giugno 2013 (data del colpo di stato del generale Al Sisi) il nemico di ieri – l’esercito – è diventato l’unico salvatore. In piazza Tahrir si canta ‘L’esercito, la polizia, il popolo’, laddove ieri si cantava ‘abbasso il regime militare’”.
In un simile contesto di dittatura militare, la paura di perdere la memoria di quei momenti di libertà è molto forte, come canta la bellissima canzone rivoluzionaria Ya Midan, del gruppo pop Cairokee con Aida Al Ayoubi.
Hey, hey, Piazza
Dove sei stata tutto questo tempo?
Con te abbiamo vissuto e cominciato
dopo essere stati lontani ed essere arrivati alla fine.
Il cambiamento è nelle nostre mani
Ci hai dato tanto e il resto sta a noi
A volte temo che tu possa diventare solo un ricordo
Che ti allontanerai da noi e che la tua idea morirà
E che torneremo e dimenticheremo che cosa è successo
E che racconteremo le storie di te solo nelle nostre favole.
Allora, per ricordare e onorare la memoria degli 846 egiziani morti e delle seimila persone ferite durante quei 18 giorni, “l’unica arma che possiedo è scrivere per contrastare i tradimenti della memoria”, scrive Sabah Hamamou, ex giornalista di Al Ahram sull’Huffington Post.
Ricordare, archiviare è quello che ha fatto la fotografa Lara Baladi con un bel progetto, il sito Vox Populi, che raccoglie molti lavori fotografici suoi e di altri artisti, o il Qamos al Thawra (Dizionario della rivoluzione), creato con racconti di oltre 200 rivoluzionari e che fonde alta tecnologia digitale e umorismo dialettale in egiziano. Ma il progetto del collettivo Mosireen (dal gioco di parole Egitto e determinazione), uscito a gennaio, è chiaramente l’archivio più elaborato e politicamente forte.
Il gruppo – nato in piazza Tahrir mentre organizzavano il famoso Cinema Tahrir – è formato da registi ma anche da attivisti e citizen journalists. Durante la rivoluzione producevano una vera “propaganda” a favore dei diritti e la libertà. Hanno procurato immagini alternative ai tanti mezzi d’informazione internazionali che non avevano accesso alla piazza: nel gennaio del 2011, sette anni fa, affermavano con fierezza di essere “il canale non profit più visto al mondo” e la tv non profit più vista in Egitto da tutti tempi. Oggi però, per Mosireen, l’unica resistenza rimasta è quella praticata attraverso la memoria.
Scavare nella memoria
Nel suo archivio 858, che include 858 ore classificate e organizzate di documenti e video, il gruppo presenta “mille storie di rivolta raccontate da centinaia di prospettive diverse”. Sotto il tag venerdì della rabbia (friday of rage), per esempio, si possono visualizzare 92 video dell’evento visti da 66 telecamere diverse.
“Mentre il regime usa tutte le sue risorse per bloccare la memoria e lo spazio pubblico, è giunta l’ora di scavare e ricordarci le nostre storie. Le rivolte che sono cominciate nel 2011 hanno cambiato il mondo per sempre e la loro memoria visiva può servire anche a lotte finora sconosciute, locali così come internazionali”.
Il generale Al Sisi pensa di poter fare a meno di qualsiasi parvenza di democrazia. Ma per chi vuole ritrovare le voci della rivolta l’archivio 858 garantisce in questo caso almeno la libertà digitale: l’archivio di Mosireen è sotto la licenza dei creative commons, e quindi accessibile senza copyright.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it