C’è un rituale che avviene alla fine di ogni esame orale alla maturità. I presidenti della commissione – degli esterni, come si dice, ossia insegnanti di un’altra scuola rispetto a quella dove si svolge la prova – con un tono tra il solenne e il familiare chiedono al candidato ormai maturato: e allora cosa pensi di fare dopo?
Il ragazzo/la ragazza, esausto dopo un’ora di colloquio in cui ha dovuto dare dimostrazione di padroneggiare almeno dieci materie, butta là la sua idea di futuro: mi piacerebbe fare ingegneria ambientale, vorrei provare a studiare all’estero, vorrei provare a entrare a medicina, vorrei fare un corso regionale di cinema, penso che andrò a lavorare con mio padre, farò il provino per l’accademia d’arte drammatica, economia, lettere, giurisprudenza, fisioterapia, odontotecnica.
È una scena commovente, dalla drammaticità intrinseca delle sliding doors. E sarebbe interessante andare a censire qualche anno dopo quante delle ambizioni espresse dei ragazzi – il presidente della commissione deve appuntare ciò che dicono nei documenti ufficiali che restano agli atti – si siano realizzate. Come è andata dieci anni dopo, due anni dopo, tre mesi dopo.
L’aumento dei neet non è l’effetto di una congiuntura astrale sfavorevole, ma il risultato prevedibile di politiche dissennate
La verità è che moltissimi di quei progetti si areneranno già alla fine dell’estate: il primo ostacolo è il numero chiuso, e la quantità di facoltà universitarie a numero chiuso è sempre maggiore. La selezione all’ingresso non riguarda solo scelte meno battute come medicina o architettura, ma anche – in molti casi – facoltà tradizionalmente di massa come lettere, economia, giurisprudenza.
La normativa prevede che i corsi universitari a numero chiuso a livello nazionale siano medicina, odontoiatria, veterinaria e i corsi triennali delle professioni sanitarie – come logopedia o fisioterapia. Al di fuori di queste specifiche facoltà, è a discrezione delle singole università decidere che un proprio corso di laurea preveda o meno il test di accesso. Il problema è che si tratta di una pratica sempre più comune e questo vuol dire che sempre più studenti scelgono facoltà di ripiego o abbandonano l’idea di fare l’università.
E occorre aggiungere un altro elemento: la selezione all’ingresso è resa più dura da condizioni non evidenti, come l’aumento delle università private e il fatto che le tasse universitarie italiane sono le terze più alte d’Europa, dopo Regno Unito e Paesi Bassi.
È facile constatare come quel dato allarmante che ogni tanto riaffiora nei titoli dei giornali – cioè una percentuale intorno al 20 per cento di giovani tra i 15 e i 24 anni neet, ossia che non lavorano e non sono in formazione, contro una media europea dell’11,5 per cento – non è l’effetto di una congiuntura astrale sfavorevole, ma il risultato prevedibile di politiche dissennate, come chiarisce un libro recente, Università futura di Juan Carlos De Martin.
In Italia non esiste una reale politica per il diritto allo studio. Per l’intero sistema universitario l’Italia spende 6,5 miliardi di euro, lo 0,9 per cento del pil contro una media Ocse dell’1,2, il che la colloca in trentunesima posizione tra i 34 paesi dell’Ocse. In Germania, per fare un esempio, i miliardi destinati all’università sono 26, il quadruplo esatto. L’Italia spende una cifra ridicolmente bassa (la spesa della sola Harvard corrisponde al 44 per cento del finanziamento ordinario di tutti gli atenei italiani messi insieme) e sempre più concentrata in pochi atenei di prestigio; ci sono sedi non solo periferiche che sono tecnicamente fallite.
Se vogliamo intristirci ancora di più possiamo elencare brevemente le cifre della tragica dispersione formativa: oggi si iscrive all’università soltanto un diplomato su due, che corrisponde all’80 per cento dei liceali, al 31 per cento dei diplomati di istituti tecnici e appena al’11 dei professionali; inoltre, degli studenti universitari soltanto il 45 per cento si laurea.
Per questo, quella domanda che viene fatta alla fine dell’esame di maturità – “E allora cosa pensi di fare dopo?” – può avere il sapore di un atto stancamente rituale ma potrebbe essere letto anche come un interrogativo sconsolato se non beffardo.
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