Il 26 aprile 1986 presso la centrale V.I. Lenin, a tre chilometri dalla città di Pripjat’ e a 16 chilometri da Černobyl (al confine con la Bielorussia), avveniva il più grave incidente nucleare della storia.
Il disastro, ricostruisce Linkiesta, è attribuibile a vari fattori umani: “Gravi mancanze da parte del personale, sia tecnico che dirigente, problemi relativi alla struttura e alla progettazione dell’impianto stesso e nella sua errata gestione economica e amministrativa. Nel corso di un test definito ‘di sicurezza’, il personale si rese responsabile della violazione di svariate norme di sicurezza e di buon senso, portando ad un brusco e incontrollato aumento della potenza (e quindi della temperatura) del nocciolo del reattore numero 4 della centrale e alla rottura delle tubazioni del sistema di raffreddamento del reattore. Il contatto dell’idrogeno e della grafite incandescente delle barre di controllo con l’aria, a sua volta, innescò una fortissima esplosione, lo scoperchiamento del reattore e un vasto incendio dello stesso”.
“Una nube di materiale radioattivo fuoriuscì dal reattore e ricadde su vaste aree intorno alla centrale, contaminandole pesantemente e rendendo necessari l’evacuazione e il reinsediamento in altre zone di circa 336mila persone. Nubi radioattive raggiunsero anche l’Europa orientale, la Finlandia e la Scandinavia con livelli di contaminazione via via minori, raggiungendo anche l’Italia, la Francia, la Germania, la Svizzera, l’Austria e i Balcani, fino a porzioni della costa orientale del Nordamerica”.
Il reattore distrutto è stato ricoperto da una struttura di contenimento, chiamata sarcofago, e la centrale di Černobyl è stata mantenuta in funzione a regime parziale e ha continuato a fornire energia elettrica alla città di Kiev fino al 2000, quando è stato spento l’ultimo reattore in esercizio.
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