L’album MITH del 2018 di Lonnie Holley, artista e musicista statunitense, è il fiore all’occhiello della sua carriera. È un disco di blues celestiale e spettrale, declamato piuttosto che cantato. Dopo aver fatto un disco del genere, cosa fai? In seguito è arrivata la collaborazione con Matthew E. White in Broken mirror, una brillante raccolta di inni e osservazioni sul mondo, racconti della carne e non solo dello spirito. Il suo nuovo lavoro, Oh me oh my, segue quella scia e fa un ulteriore passo avanti, affrontando il funk profondo di dischi come My life in the bush of ghosts. Le collaborazioni, che spaziano da sconosciuti a star come Michael Stipe dei R.E.M. e Bon Iver, rafforzano questa impressione: è come se all’improvviso si manifestasse una connessione sommersa con il mondo che era stata presente nel lavoro di Holley fin dall’inizio. È facile che questo genere di cose puzzi di stronzata new age che svende la realtà del dolore. Non è questo il caso: una rapida occhiata alla biografia di Lonnie Holley lo conferma. Le note tese di speranza nella sua voce non sono ingenuo idealismo, ma qualcosa che proviene da una vita difficile. Ascoltando Oh me oh my, non riesco a liberarmi dalla sensazione di sentire mio nonno che parla. Spesso non sono d’accordo con quello che dice, ma lui si esprime sempre con il cuore, cercando disperatamente di trasmettermi cose che trova di valore, prima di andarsene per sempre.
Langdon Hickman, Treblezine
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1503 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati