Romanziere, saggista, critico, fotografo, docente – la maggior parte degli scrittori o degli artisti si accontenterebbe di uno o due di questi titoli, magari sfumando i confini tra i loro interessi principali e quelli più laterali. In Tremore sono presenti tutte le abilità di Teju Cole ed è tra tutti i suoi lavori il più variegato e nomade, con suoi continui cambi di forma, prospettiva e argomento. A volte ha un’aria familiare, specialmente nella facilità con cui Cole passa dalla nitida messa a fuoco del suo protagonista a una visione grandangolare attraverso la lente di eventi storici. Tremore si apre con una panoramica cinematografica che sorvola secoli e continenti – qualcosa di simile agli Anelli di Saturno di W. G. Sebald – solo che qui l’ambientazione è quella del New England accademico e borghese. Un fotografo e docente nigeriano-americano di nome Tunde è in giro per antiquari con la moglie giapponese, Sadako, quando insieme trovano un copricapo a forma di testa di antilope, un ci wara. È un oggetto da poco e senza alcun certificato di provenienza, ma scatena in Tunde una serie di riflessioni sulla violenza coloniale sulle due sponde dell’Atlantico. Il commercio dell’arte africana “autentica”, i musei moderni come depositi di bottini imperialistici, storie di attacchi e rapimenti di nativi americani come precursori della “guerra al terrore”: il romanziere invita i lettori a tenere tutti questi aspetti a mente, anche se sono veicolati da un personaggio tratteggiato in modo così vago come Tunde. Della sua vita sappiamo alcune cose: ha passato la giovinezza a Lagos, insegna storia dell’arte e almeno una delle sue relazioni precedenti era stata con un uomo. Ma la voce di Tunde è davvero presente solo quando riflette sulle arti e sulla storia. Tutto questo è evidente nell’intero capitolo dedicato a una sua lezione sul quadro La nave negriera di J.M.W. Turner del 1840 e sugli oggetti rubati al Museum of fine arts di Boston – una lezione interrotta da una breve cecità da un occhio. La lezione, come tutto il resto del romanzo, è pervasa da due domande sul destino delle facce e dei corpi che vediamo rappresentati nelle opere d’arte o nei libri. Perché ce li mostrano? E per fare gli interessi di chi? Tremore rimane ambiguo ma offre anche una serie di consolazioni.
Brian Dillon, The New York Times
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Questo articolo è uscito sul numero 1559 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati