In un certo senso gli incontri multilaterali della Conferenza delle parti delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Cop), come quello che si è svolto a Baku, in Azerbaigian, sono sempre stati destinati al fallimento. Pensate alle posizioni opposte delle nazioni ricche produttrici di combustibili fossili, che dominano questi incontri, e a quelle dei paesi poveri che chiedono sostegno finanziario e risarcimenti per le devastazioni subite a causa dell’estrazione e della combustione di fonti fossili fatte in altre parti del mondo. Eppure, c’è un motivo indiscutibile per cercare un’intesa giusta tra questi interessi opposti. Le divergenze sono più apparenti che reali, se solo l’umanità fosse in grado di prendere sul serio le previsioni della scienza sul cambiamento climatico. Tutte le prove indicano che le catastrofi causate oggi dal clima in un luogo avranno conseguenze negative domani in un altro. Non si tratta solo del fatto che i disastri climatici ormai colpiscono senza preavviso, nei paesi ricchi come in quelli poveri. Il punto è che lo stravolgimento climatico globale comprometterà il sistema delle catene di approvvigionamento, provocando una “carneficina economica” nei settori strettamente intrecciati delle comunicazioni e dell’industria del mondo ricco, mentre gli eventi climatici estremi nel sud globale alimenteranno una crisi migratoria senza precedenti.

È disarmante la miriade di strumenti politici, economici e finanziari che bisogna armonizzare. E la situazione mondiale, dall’elezione di Donald Trump alle guerre senza soluzione, getta un’ombra lunga e oscura. Ma agire nel proprio vero interesse non deve essere al di là dell’immaginazione politica delle nazioni ricche. E concludere un accordo utile con i grandi inquinatori non deve essere al di là della prospettiva delle nazioni povere. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1590 di Internazionale, a pagina 21. Compra questo numero | Abbonati