Lo scorso autunno gli statunitensi Bon Iver hanno pubblicato una canzone intitolata Speyside, un brano malinconico nel quale la voce del leader Justin Vernon si accompagna solo con una chitarra e una pedal steel. Era un pezzo notevole, ma aveva un’aria familiare. Molti a quel punto hanno cominciato a chiedersi se il gruppo sarebbe tornato alle atmosfere folk e minimaliste del primo album, For Emma, forever ago. I Bon Iver ormai hanno alle spalle diciotto anni di carriera e cinque dischi, ma quel primo lavoro resta insuperato. Sable, fable non è il suo seguito. È un album vario, che secondo alcuni potrebbe essere l’epilogo dei Bon Iver, qualcosa che anticipa una nuova fase della carriera di Vernon. La prima parte è introspettiva, con i brani pubblicati nel precedente ep Sable, e si apre con la cupa Things behind things behind things, nella quale Vernon canta in modo provato e irrecuperabile. Nella seconda metà, a partire da Short story, l’atmosfera si fa più solare e i brani somigliano più che altro a canzoni d’amore, a tratti goffe e giocose. In questo disco Vernon scrive e canta in modo più diretto del solito. Quando si arriva alla fine, è sorprendente trovarsi di fronte a Au revoir, una breve improvvisazione al pianoforte senza parole. Ma una conclusione simile ha senso, in effetti. Come cantava Vernon nel 2007 nel brano re: Stacks: “È il suono dell’aprirsi e dell’allontanarsi”.
Laura Burton, Uncut
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Questo articolo è uscito sul numero 1609 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati