Negli ultimi anni la narrativa sull’emigrazione nordafricana è stata dominata dalle storie drammatiche di chi cerca di attraversare il Mediterraneo. Con toni sensazionalistici i mezzi d’informazione hanno alimentato la convinzione che tutti gli abitanti dei paesi nordafricani sarebbero pronti a partire alla ricerca di una vita migliore in Europa.
Il fatto che diversi fattori sociopolitici ed economici spingano la gente a lasciare il proprio paese è innegabile, ma è altrettanto vero che aumentano i giovani emigrati decisi a tornare in Nordafrica, anteponendo il senso di comunità e l’appartenenza culturale al sogno di arricchirsi. E, insieme al numero crescente di persone che scelgono di tornare nei paesi dove sono nate o da cui sono venuti i loro genitori, sta emergendo una nuova tendenza, quella dell’emigrazione di ritorno.
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“Volevo rientrare nella regione e ho scelto il Marocco perché mi sento molto legata a questa cultura e a questo stile di vita”, ha spiegato Sally Ghaly, una produttrice canadese-egiziana che oggi vive a Marrakech. “Questa città è uno snodo culturale, un punto d’incontro tra Africa, Medio Oriente ed Europa, tutti luoghi che hanno influenzato la mia mentalità. Ma è anche un ambiente ideale per la produzione creativa. La gente qui vuole collaborare, dar vita a progetti collettivi, partecipare”.
Ghaly è nata e cresciuta in Canada. Prima di stabilirsi a Marrakech, ha vissuto in Corea del Sud e in Germania. Oltre all’attività di produttrice, ha fondato il gruppo femminile Out of office creative retreats, che nei primi appuntamenti si è concentrato sulla scena artistica nordafricana. “Stabilirci qui era la scelta più sensata dal punto di vista creativo, imprenditoriale e culturale”, spiega Ghaly. “Raccomando a tutti di valutare la possibilità di lasciare l’Europa e il Nordamerica”.
La produttrice, modella e direttrice artistica Raina Malek è una delle creatrici dei ritiri organizzati da Out of office in Marocco. Nata a Casablanca, ha seguito il lavoro del padre in Iran e in Arabia Saudita. “Poi ho deciso di tornare, per diverse ragioni”, spiega. “Volevo essere testimone dello sviluppo del Marocco e cercare di farne parte. Sentivo che avrei potuto dare il mio contributo alla crescita del paese. In cambio, trasferendomi qui ho trovato molte opportunità professionali”.
Malek ha ideato il laboratorio Back to the roots: introduction to moroccan contemporary art (Ritorno alle origini: introduzione all’arte contemporanea marocchina) che si tiene all’interno di Jajjah, galleria d’arte e ristorante del fotografo Hassan Hajjaj. Durante gli incontri, Malek analizza il significato globale e storico dell’arte locale attraverso un dibattito sulla musica gnawa e la cucina marocchina.
“Nella mia famiglia tutti hanno un lato artistico”, racconta. “Avevo voglia di trasformare questa caratteristica in un lavoro. Vivere in Marocco ha rafforzato il mio talento. Quando ho incontrato Hassan Hajjaj ho sentito di dover seguire un percorso artistico e ho cambiato direzione alla mia vita”.
Il giornalista sportivo Maher Mezahi è tornato ad Algeri due volte. Nel 2015 è arrivato dal Canada per occuparsi di calcio africano, ma dopo sei anni ha avuto voglia di cambiare aria e si è spostato a Marsiglia. Presto, però, si è reso conto di provare una grande nostalgia per l’Algeria.
“La prima volta è stata più emozionante, perché tutto era una novità”, spiega. “Ma la seconda è stata molto più importante, proprio perché niente era nuovo e conoscevo tutte le difficoltà. Eppure avevo comunque voglia di tornare qui, perché per me significava essere a casa”.
Sardine e nirvana
Nell’ultimo decennio, l’Algeria ha vissuto due ondate di ritorno della diaspora: quella dei giovani professionisti, imprenditori e giornalisti che hanno raccontato le elezioni del 2014 e quella in occasione delle proteste del 2019 contro il governo. Anche se molti giornalisti alla fine se ne sono andati per il declino dei diritti civili, il settore delle startup algerine continua a offrire grandi possibilità agli imprenditori disposti a tornare in patria. “Le cose stanno cambiando rapidamente”, spiega Mezahi, “ma ancora oggi trovo molta gioia nelle piccole cose di ogni giorno. A pranzo ho mangiato sardine… e ho raggiunto il nirvana”.
Il musicista egiziano Malik Elmessiry prova sentimenti simili per la vita quotidiana del suo paese.
“Tornando al Cairo spero di trovare quello che cerco”, spiega. “Voglio godermi le piccole cose, andare in giro con gli amici e la famiglia durante la settimana, creare un equilibrio tra il lavoro e la vita, privilegiare il mio benessere rispetto alla produttività”.
Elmessiry si è trasferito a New York nel 2018 per laurearsi in scienze della formazione e allargare la sua rete di conoscenze. Dopo sei anni ha deciso di smettere di “rincorrere il sogno americano”. “Crescendo ci rendiamo conto di aver idealizzato l’occidente e il suo progressismo, mettendo il lavoro davanti a tutto il resto. Dopo aver vissuto in quel modo ho capito che non era sano. Per me è chiaro il motivo per cui in occidente dilagano la solitudine e i disturbi mentali”, spiega.
L’attivista e appassionata di ciclismo Heba Attia Mousa ha vissuto un’esperienza simile studiando in Europa.
Nata e cresciuta a Hurghada, in Egitto, si è trasferita a Berlino per studiare architettura e laurearsi in urbanistica, ma dopo due anni in cui ha dovuto affrontare una crisi d’identità e mentale ha deciso di tornare a casa.
“In vita mia non mi ero mai sentita una persona stravagante solo perché indossavo l’hijab”, racconta. “Prima di partire per la Germania avevo pensato di smettere di portarlo, ma poi ho sentito di doverlo tenere come forma di resistenza nei confronti del razzismo che subivo”.
Mousa temeva che tornando in Egitto avrebbe perso alcune libertà, ma ha scoperto che le esperienze vissute all’estero l’avevano cambiata, rendendola più forte. Così si è calata nella sua nuova identità, ha messo da parte l’hijab e ha fondato Tabdeel, un’iniziativa per creare città più pulite, sane e sostenibili in Egitto e nel resto del Nordafrica. “Qui la vita mi sembra molto più autentica rispetto alla Germania”, sottolinea.
“Con tutto quello che sta succedendo in Palestina, in Sudan e in Congo, essere circondata da persone che condividono i miei valori e la mia etica mi regala una stabilità che non avevo mai avuto”, spiega Ghaly. Elmessiry è d’accordo: “Per me è stata una decisione facile, perché il senso di comunità è un elemento cruciale della vita, e in occidente si perde”. Dal Marocco all’Egitto, gli emigrati e i figli della diaspora stanno tornando in Nordafrica alla ricerca della collettività. E anche del sole, naturalmente. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1555 di Internazionale, a pagina 81. Compra questo numero | Abbonati