Dopo aver completato il corso di studi islamici all’università di Riyadh, Munira è tornata a vivere a casa dei genitori a Zulfi, una cittadina nel cuore conservatore dell’Arabia Saudita, dove il mercato del lavoro è “per soli uomini”. È rimasta lì per anni senza far niente. Voleva tornare nella capitale e trovarsi un lavoro, ma i suoi genitori la ostacolavano: come molti sauditi conservatori, non riuscivano a capire perché volesse lasciare la famiglia per cercare un impiego. “Gli dicevo che dovevano lasciarmi andare”, racconta Munira. “La prima volta mi hanno risposto: ‘E perché? Possiamo darti noi i soldi’. E io: ‘Non voglio vivere così, non voglio ancora sposarmi, ho bisogno di fare altre esperienze’”. Alla fine i genitori si sono ammorbiditi e oggi Munira lavora in un negozio di abbigliamento maschile nella capitale e vive in un appartamento con sua sorella.
In Arabia Saudita sono sempre di più le donne che hanno un lavoro. La tendenza ha contribuito a modificare soprattutto il commercio al dettaglio negli onnipresenti centri commerciali di Riyadh ed è un successo tangibile dell’ambizioso piano di riforme economiche del principe ereditario Mohammed bin Salman. In soli quattro anni la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è più che raddoppiata, arrivando al 33 per cento. Il governo, sempre più autoritario, ha comunque allentato molte restrizioni imposte alle donne, permettendogli per esempio di guidare l’auto e incoraggiandole a lavorare. Allo stesso tempo, però, ha incarcerato molte attiviste nel quadro di una più ampia campagna di repressione del dissenso. Secondo Cinzia Bianco, ricercatrice dell’European council on foreign relations, affrontare il problema dell’occupazione femminile era fondamentale per ridurre la disoccupazione totale, che Bin Salman vuole portare al 7 per cento entro il 2030. Il principe ereditario aveva anche altre motivazioni. “Le donne sono considerate una categoria chiave per Bin Salman”, spiega Bianco. “Perfino una casa reale autoritaria ha bisogno di sostegno”.
Negli ultimi cinque anni in Arabia Saudita la disoccupazione era rimasta intorno al 12 per cento, ma tra i giovani arrivava al 30 per cento. La crescita economica ristagnava, con il settore privato impaurito dall’arresto di centinaia di principi e uomini d’affari in una presunta campagna anticorruzione. Tuttavia nel secondo trimestre del 2021, con la ripresa dalla paralisi causata dal covid-19, la disoccupazione è scesa all’11,3 per cento, il livello più basso dal 2011. Questo lo si deve in parte alla partenza dei lavoratori stranieri con la pandemia e alla rigida applicazione di un sistema che obbliga le aziende di molti settori ad assumere una quota minima di sauditi. Dal 2017 due milioni di stranieri hanno lasciato il regno in seguito alla decisione del governo di aumentare le tasse sugli immigrati e le loro attività. E il ministro del lavoro Ahmed al Rajhi ha affermato che il governo vuole proseguire su questa strada introducendo nuove quote per la “saudizzazione”.
Fare più esperienze
Riyadh deve trovare un equilibrio tra la necessità di far lavorare i sauditi e le pressioni sul settore privato, che deve affrontare l’aumento dei costi e il fatto che per molto tempo ha contato sull’impiego di lavoratori stranieri, spesso più qualificati ma pagati meno. Secondo Rajhi il problema è avere “le persone giuste per ogni mansione e allo stesso tempo evitare di ostacolare il settore privato impedendogli di assumere stranieri, perché non ci sono abbastanza sauditi”. Gli immigrati sono ancora il 77 per cento degli occupati nel settore privato. Nel commercio al dettaglio i sauditi costituiscono solo il 28 per cento dei 640mila occupati. Il governo saudita sostiene di aver di fatto congelato le assunzioni nell’amministrazione statale nel tentativo di ridurre il peso del settore pubblico. Gli analisti osservano però che al momento sono soprattutto gli enti legati alle istituzioni, tra cui il fondo sovrano, ad aumentare il numero di occupati. “Puoi spingere le persone a lavorare, ma il settore privato ha bisogno di crescere per soddisfare questa domanda. Sta crescendo abbastanza per assumere le 150mila persone che entrano ogni anno sul mercato del lavoro?”, si chiede un esperto saudita. Alcuni giovani aspirano ancora ai posti di lavoro statali, sicuri e retribuiti bene. Potrebbe essere per questo che il tasso di partecipazione al lavoro nel paese è leggermente calato nei primi sei mesi del 2021, scendendo al 49,4 per cento dal 51,2 per cento registrato alla fine del 2020. “La disoccupazione sta calando non grazie alla crescita del settore privato o alla partenza degli stranieri, ma perché è diminuita la partecipazione della forza lavoro: i sauditi rinunciano a cercare un impiego”, aggiunge l’esperto.
Il direttore di una filiale della catena di caffè Starbucks racconta di aver rispettato le quote previste per la saudizzazione assumendo due giovani saudite, ma dubita che resteranno a lungo: “Negli ultimi due mesi mi è capitato con più di dieci persone: hanno cominciato a lavorare e se ne sono andate via subito”. Tuttavia, la presenza di sauditi che lavorano nei negozi e negli alberghi, alle casse dei supermercati, nei bar e alla guida di macchine da noleggiare su piattaforme come Uber sta modificando la mentalità di un paese in cui metà della popolazione ha meno di 25 anni. Youssuf, direttore di un bar in cui tre dipendenti su sette sono sauditi, afferma: “Si può dire che ci siamo svegliati. Abbiamo capito che abbiamo bisogno di lavorare e di fare più esperienze”.
Tuttavia secondo un professore universitario di Riyadh, resta la convinzione che nel settore privato ci sia meno sicurezza. “Se non hai un buon lavoro non puoi permetterti una casa o un appartamento, e se non puoi sposarti non fai parte della società saudita. Perché essere sposati e avere figli è parte integrante della costruzione dell’identità”, dice il docente.
Il costo della vita è aumentato dopo il taglio dei sussidi per il carburante e l’energia elettrica e la decisione di triplicare l’iva. Dal momento che Riyadh è il centro di molti dei progetti di Bin Salman, sono sempre di più le persone costrette a trasferirsi nella capitale, dove le spese sono più alte. Mohammed è uno dei tanti giovani sauditi che oggi integra le sue entrate facendo l’autista di Uber. “Se vuoi avere un buon posto di lavoro devi trasferirti a Riyadh”, afferma. Munira invece è felice della sua nuova libertà: “Voglio avere dei soldi miei, voglio fare tutto. Ora mi sento davvero indipendente”, proclama con un sorriso. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1433 di Internazionale, a pagina 107. Compra questo numero | Abbonati