Da settimane tutti gli osservatori ipotizzano il rischio di un allargamento del conflitto in Medio Oriente, uno scenario che non è mai sembrato così concreto come negli ultimi giorni. Per la prima volta dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, tre soldati statunitensi sono stati uccisi e almeno 34 sono rimasti feriti in Giordania in un attacco con i droni attribuito a milizie filoiraniane. Tanto il numero dei morti e dei feriti quanto il bersaglio dell’attacco – anche se Amman ha smentito che l’incursione sia avvenuta sul suo territorio e assicura che l’obiettivo fosse la base statunitense di Al Tanf in Siria – conferiscono a questa nuova escalation una dimensione senza precedenti, in un contesto segnato da tensioni forti su numerosi fronti.
La regione è già “infuocata”, perché attualmente sono in corso conflitti di diversa intensità a Gaza, alla frontiera tra Libano e Israele, in Siria, in Iraq, nel mar Rosso e nello Yemen. Né gli Stati Uniti né l’Iran vogliono una guerra su vasta scala, ma da settimane entrambi stanno giocando con il fuoco, rispondendo colpo su colpo, e avvicinandosi sempre di più all’abisso.
Per più di dieci anni gli Stati Uniti hanno preferito sottovalutare la minaccia iraniana in Siria, in Iraq, in Libano e nello Yemen, e questa strategia gli si sta ritorcendo contro
L’Iran e i suoi alleati hanno subìto diversi affronti negli ultimi mesi, con l’eliminazione di Razi Moussavi (un pilastro dei guardiani della rivoluzione in Siria), l’uccisione di Saleh al Arouri, numero due di Hamas a Beirut, e di molti alti dirigenti del gruppo libanese Hezbollah, che ha perso almeno 171 uomini dall’inizio dei combattimenti tra il partito sciita e Israele. Ma questo non sembra aver scoraggiato in nessun modo l’asse iraniano. O meglio, l’alleanza che fa capo a Teheran sembra soppesare le sue risposte contro Israele – come sta facendo nel sud del Libano – senza risparmiare i colpi contro gli Stati Uniti. Dal 7 ottobre le milizie sciite attive in Siria e in Iraq, così come gli huthi, hanno intensificato gli attacchi contro gli obiettivi di Washington.
L’Iran può permettersi di accumulare sconfitte sul campo, purché queste non lo tocchino direttamente, se al tempo stesso ha la sensazione di vincere sul piano strategico. L’incapacità degli Stati Uniti di affermare il proprio potere di deterrenza nei confronti delle milizie alleate di Teheran e la volontà americana di riportare in patria i soldati presenti in Siria e in Iraq sono considerati dalla Repubblica islamica altrettanti segnali di debolezza di cui poter approfittare: sia costringendo Washington a ritirarsi dalla sua “zona d’influenza” (Libano-Siria-Iraq-Yemen) sia spingendola a riconoscere all’Iran, attraverso un accordo diplomatico, il suo status di potenza dominante nella regione.
Messa spalle al muro, la Casa Bianca è in una posizione delicata. Le voci più radicali chiedono a Joe Biden di colpire direttamente l’Iran, unico modo secondo loro di riaffermare la capacità deterrente della prima potenza mondiale. Una decisione simile comporterebbe tuttavia la possibilità di un conflitto su vasta scala che il presidente – in cerca di un disimpegno dalla regione – vuole evitare, tanto più all’avvio della campagna elettorale.
Colpire l’Iran potrebbe causare un’escalation che non risparmierebbe Washington e i suoi alleati, in particolare Israele. Tuttavia, anche se Biden ha già preannunciato una risposta, lanciarla in Siria o in Iraq significa correre il rischio di non mandare un segnale abbastanza forte da costringere l’asse iraniano a fermare i suoi attacchi.
L’amministrazione Biden si trova ad affrontare una scelta che prevede solo cattive opzioni. Questa situazione è frutto di tre fattori: sostegno incondizionato a Israele dall’inizio della guerra a Gaza; l’intervento statunitense in Iraq nel 2003, che ha offerto il paese all’Iran su un piatto d’argento; la volontà decennale di Washington di andarsene dal Medio Oriente, che ha lasciato l’Iran libero di sviluppare una rete di milizie in grado di mettere a ferro e fuoco la regione.
Per più di dieci anni gli Stati Uniti hanno preferito sottovalutare la minaccia iraniana in Siria, in Iraq, in Libano e nello Yemen, e questa strategia si sta ritorcendo contro Washington nel momento peggiore. Dopo il 7 ottobre Biden ha voluto considerare Gaza separata dal resto della regione, e questo si sta traducendo in un fallimento su tutta la linea.
Se “l’asse della resistenza” sembra voler correre il rischio di uccidere dei soldati statunitensi è perché è convinto che Washington contrattaccherà in Siria e in Iraq. Qualunque altra azione dell’amministrazione Biden sarebbe sorprendente, perché implicherebbe la possibilità di una guerra aperta con l’Iran. Tuttavia Teheran, che sta per dotarsi dell’arma nucleare, ha molto di più da perdere degli Stati Uniti nel caso di un’escalation incontrollabile. Non è detto che le milizie dell’asse iraniano potranno garantire la sopravvivenza del regime in caso di conflitto contro la prima potenza mondiale. ◆ fdl
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Questo articolo è uscito sul numero 1548 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati