Ho assistito mia sorella durante il parto. Da madre single voleva il mio supporto. È stato un momento importante ma in parte rovinato dalle circostanze: la piccola è stata portata in terapia intensiva dove non potevo entrare perché non ero il padre. È rimasta sola mentre gli altri neonati godevano dell’affetto dei genitori. Pare sia lo standard negli ospedali italiani. Ma perché è ancora così difficile rapportarsi a famiglie “diverse’’? Alla fine sono solo i bambini a rimetterci.
–Adriano

◆ Dodici anni fa mi trovavo in un ospedale dell’Ohio perché Tara, la donna che ha portato avanti le gravidanze da cui sono nati i miei tre figli, stava per partorire il più piccolo. Quando le contrazioni si sono fatte più frequenti è arrivato il ginecologo che, notandomi accanto al letto, mi ha chiesto: “Lei è il padre del bambino?”. “Sì, sono io”, ho risposto. “Ma io sono il marito di Tara”, ha detto Nick dall’altro lato della stanza. “Il marito e il padre del bambino, tutti e due in sala parto. Questa non mi era mai capitata”, ha detto il dottore divertito. Alla fine comunque la vera parte del marito l’ha fatta Lisa, la sorella lesbica di Tara. Concentratissima fino all’ultimo minuto, teneva stretta la mano di Tara, respirava e spingeva insieme a lei, seguendo le istruzioni del dottore. Gli Stati Uniti sono un paese complesso e con tanti difetti, ma ho sempre amato la loro idea elastica di famiglia, basata sui ruoli pratici più che sulle definizioni. In Italia, come conferma la tua storia, siamo legati a un modello rigido e teorico di famiglia, che è più forte anche del bene dei bambini.

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Questo articolo è uscito sul numero 1531 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati