Octavia E. Butler accetta una sfida difficile: ambientare la sua storia sull’orlo di un cambiamento epocale e immaginare un nuovo ordine del mondo nel momento del suo concepimento. I capitoli iniziali che si svolgono nella California del sud nell’anno 2024 mostrano una società in disfacimento con qualche elemento per noi ancora riconoscibile. La comunità della classe media in cui vive con la famiglia la quindicenne Lauren Oya Olamina è protetta dall’esterno da un alto muro di cinta. Là fuori c’è una nuova droga chiamata pyro che trasforma i tossici in piromani, le strade sono pericolose ma ci vuole ancora un occhio molto attento per capire quanto il disastro sia vicino. Lauren è la figlia di un pastore battista e soffre di una condizione rara chiamata “iperempatia” a causa della quale patisce il dolore altrui come se fosse il suo. La narrazione di Butler segue il diario di Lauren: attraverso la descrizione dei disastri sociali, politici e naturali che stanno distruggendo il suo mondo la ragazza comincia a immaginare una società nuova. La sua è una visione religiosa: Lauren diventa una profeta e una guida per uno sparuto gruppo di sopravvissuti. La parabola del seminatore è un’appassionante storia di sopravvivenza e un racconto realistico su come si diventa grandi in un mondo in disfacimento. Ma soprattutto è una sottile e vagamente disturbante esplorazione del vangelo secondo Lauren: “L’unica verità certa è il cambiamento. Dio è cambiamento”.
Gerald Jones, The New York Times (1993)
Costantinopoli, inizi del novecento. Nella capitale di un impero in decadenza, tra tensioni politiche e guerre di clan, la vita può essere un gioco d’azzardo, una partita a dadi. A sedici anni Ziya vendica con alcuni complici l’omicidio del fratello: nel bel mezzo del processo uccide il piccolo criminale albanese che doveva essere giudicato per quel delitto. Lo arrestano, ma gli viene offerta la possibilità di fuggire al Cairo e vivrà lì per qualche anno protetto da oscure figure a cui un giorno potrà essere utile. I dadi è un brutale e disperato romanzo di formazione ed è l’ultimo volume della trilogia che lo scrittore turco Ahmet Altan ha scritto in carcere. Senza cadere nel terreno scivoloso della politica del suo paese Altan sottolinea le somiglianze tra l’impero ottomano di ieri e la Turchia di oggi: corruzione, cattive decisioni su scala nazionale, odio tra le persone. Sembra quasi la stessa Turchia.
Christian Desmeules, Le Devoir
Nelle strade di Teheran descrive dall’interno la recente ondata di proteste in Iran. Questo racconto, pervaso da un amore appassionato per la libertà ma anche per la cultura iraniana e per la lingua persiana, è stato scritto da una donna che vive a Teheran ed è costretta a pubblicare all’estero con lo pseudonimo di Nila. Racconta gli arresti, gli stupri, le esecuzioni e giunge alla difficile conclusione che “la rabbia e il disgusto per la repubblica islamica non basteranno per distruggerla”. Ma descrive anche la propria gioia nel vedere “tutte quelle teste piene di furore ed entusiasmo con i capelli sciolti”. Ma soprattutto Nila riesce a vedere i legami tra la situazione iraniana e le rivendicazioni che agitano il resto del mondo: “Il patriarcato contro cui lottiamo è intimamente legato alla religione imposta dal regime, ma le sue radici sono talmente diffuse nel mondo che le nostre lotte sono le stesse delle donne e delle altre minoranze fuori dalle nostre frontiere”. Nila osserva e lotta a Teheran, le sue parole però risuonano fuori dei confini del suo paese. Fin dalle prime pagine l’autrice dice che cercherà di trovare, seguendo le manifestazioni quotidiane per le strade di Teheran, non solo “la destinazione di un movimento o di una rivoluzione nascente” ma prima di tutto “la speranza” grazie alla quale la rabbia diventerà molto più forte della paura. Il grande merito di un libro come Nelle strade di Teheran è quello di rendere davvero universale la lotta delle donne iraniane.
Sophie Benard, Le Monde
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