Cultura Suoni
Love changes everything
Dirty Three (Daniel Boud)

Sono passati dodici anni dall’ultima uscita degli australiani Dirty Three e forse avrete dimenticato come suonano. Però se vi tornano in mente il violino evocativo di Warren Ellis, le tinte sfocate della chitarra di Mick Turner e la batteria di Jim White, forse non siete sulla strada giusta per ascoltare il loro nuovo lavoro. Ognuno dei sei pezzi riporta il titolo del disco, Love changes everything, e un numero, suggerendo che, pur variando per tono e timbro, fanno parte di una suite. Tuttavia, nonostante questa impostazione, la maggior parte del materiale sembra improvvisato. Ellis, Turner e White hanno imparato a concedersi un po’ di spazio anche se sanno ancora come ascoltarsi a vicenda. Questi brani mostrano senza dubbio una band rafforzata dall’esperienza. Anche se Love changes everything non suonerà sempre come vi ricordavate i Dirty Three, trasmette ancora la loro singolare intensità, riflessa e trasformata. A uno stadio della carriera in cui molti artisti preferiscono tornare alle origini, loro hanno preferito creare una nuova forma, impregnata della delicatezza e della forza fulminante che li caratterizza.
Reed Jackson, Spectrum Culture****Dirty Three

Megan
Megan Thee Stallion (Kanya Iwana)

Quando Megan Pete ha raggiunto la fama all’inizio del decennio, era portatrice di un divertimento feroce e piacevole. Anche se era sempre occupata a ribadire la sua sensualità, c’era spensieratezza nei primi successi della rapper, che stesse collaborando con Beyoncé oppure con Nicki Minaj o Cardi B. Alcuni anni dopo, il suo umore si è inasprito. La ventinovenne potrebbe essersi assicurata un posto nel firmamento del rap – il recente singolo Hiss ha debuttato al primo posto della classifica statunitense – ma a giudicare da Megan, questo suo terzo album, non è mai stata così sola sulla vetta. Questo disco è una vetrina delle sue abilità – il flow della rapper è vivace e frizzante – ma il disco è un sermone ripetitivo sulla superiorità dell’autrice. Il mondo dell’artista ora è fatto di falsi amici (attualmente è in lotta con Nicki Minaj), relazioni adultere e tradimenti. Nonostante la sensualità da amazzone, la sua ricchezza e i suoi successi, è difficile invidiarla, perché il suo zeitgeist musicale è fatto soprattutto di traumi e vulnerabilità. L’ascolto del disco, inoltre, è abbastanza faticoso. Ci sono brani belli in modo sorprendente, come Cobra, ma i testi sono privi di senso dell’umorismo e d’inventiva. È un inno all’onanismo, e sembra semplicemente l’apice del triste isolamento di una stella del rap.
Rachel Aroesti, The Guardian

Bright and early. Musiche di Joan Ambrosio Dalza, Francesco Spinacino, Marchetto Cara

Hopkinson Smith, ricercatore instancabile, s’immerge nel cuore di pagine dimenticate dalla storia, anche se nei manoscritti di alcuni dei pezzi per liuto presentati in questo album ci sono molti momenti illogici, parti mancanti e altri pasticci. Sono pochi ad aver preso in esame le raccolte pubblicate in Italia all’inizio del cinquecento da Ottaviano Petrucci, il primo stampatore di musica polifonica. Uno è Massimo Lonardi, che ha registrato pezzi di Joan Ambrosio Dalza con un’eleganza sempre precisa, radicata a terra (Agora 1995). Ora c’è Hopkinson Smith, che invece guarda verso il cielo e privilegia atmosfere eteree e intimiste, del tutto prive di pesantezza. La sonorità sottilmente perlata del suo strumento affascina dall’inizio alla fine, e c’invita a un’introspezione immersa nella luce. Il montaggio insolito delle corde del suo strumento fa emergere questa luminosità donando più presenza al registro acuto. Le pavane e i saltarelli danzano con eleganza, e i ricercari, di scrittura polifonica, emozionano per la chiarezza delle loro linee. Al centro del programma culmina una frottola di Marchetto Cara, sottolineata da controcanti delicati.
Fabienne Bouvet, Diapason

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1571 - 12 luglio 2024

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