Megalopolis è un’allucinazione, meravigliosamente fuori dal comune. Al tempo stesso lamentazione malinconica e fantasia futuristica, visione di una società moribonda e ritratto di un idealista, un architetto, Cesar Catilina (Driver), che sogna un mondo migliore. Genio enigmatico, Catilina vive in una città che sembra la New York dei giorni nostri filtrata dall’antica Roma (nonché un miscuglio di set cinematografici), familiare e oscura, realistica nell’essere rappresentata come un parco giochi per i ricchi e una prigione per i poveri. La città ossessiona Catilina, ma è anche una fonte d’ispirazione. La sua visione di un posto in cui le persone possano realizzarsi al meglio è ostacolata specialmente da uomini meschini. Tra questi il sindaco Franklyn Cicero (Esposito) un politico navigato senza pazienza per la fantasia. Succederà di tutto e in alcuni casi le cose non decolleranno come avrebbe sperato il regista, tuttavia nel ritratto di un sognatore sempre sull’orlo del baratro è evidente il suggerimento autobiografico. Tutto il film suona come una dichiarazione personale di Coppola su scala epica, un testamento sfacciato, a tratti bellissimo, in altri momenti meno. Anche per questo non può essere liquidato con superficialità. Megalopolis sarà pure folle, ma a Holly-wood non farebbe male usare nei suoi film un po’ più di follia, di passione e di coraggio.
Manohla Dargis, The New York Times
Stati Uniti 2024, 138’. In sala
Stati Uniti 2024, 122’. In sala
A New York, negli anni settanta, l’aspirante magnate Donald J. Trump vuole a tutti i costi affrancarsi dall’ingombrante figura paterna e farsi un nome nel settore immobiliare. Il faccendiere politico Roy Cohn intravede qualcosa nel giovane rampante e gli insegna come accumulare ricchezze attraverso l’inganno, l’intimidazione e la manipolazione dei mezzi di comunicazione. Gli avvocati di Trump hanno minacciato azioni legali per bloccare l’uscita del film. Il fatto che la prospettiva di una simile censura abbia suscitato più indifferenza che indignazione forse la dice lunga sul film di Ali Abbasi. Girato in modo da evocare le imperfezioni del vhs, The apprentice è ben recitato da Strong nei panni di Cohn, da Maria Bakalova nel ruolo di Ivana Trump e da un Sebastian Stan pesantemente truccato per incarnare il protagonista, presentato fin dall’inizio come un sacco di merda che diventa progressivamente sempre più merdoso. The apprentice non è da buttare, ma non è certo una rivelazione.
Justin Chang, The New Yorker
Germania 2023, 115’. In sala
Mark (Lau) beve. Fa festa tutti i giorni. Sa che poi non dovrebbe guidare, ma una sera la polizia lo becca mentre parcheggia e gli leva la patente. Per riaverla dovrà frequentare un corso e superare un test medico-psicologico. Questa situazione diventa un’occasione per Mark, che scommette con un amico che non toccherà alcol per tre mesi. La sua compagna di sbronze Helena (Tschirner) pensa che non durerà neanche un mese. Indovinate chi ha ragione. Il film ha ritmo ed è divertente anche se, quando diventa chiaro che Mark deve disintossicarsi, prende un po’ la strada della lezioncina moraleggiante e forse non è all’altezza del film di Thomas Vinterberg, Un altro giro. Ma il paragone è forse un po’ ingiusto nei confronti di una commedia non superficiale.
Harald Mühlbeyer, Kino Zeit
Stati Uniti 2024, 95’. In sala
Un film che si presenta come “un’imitazione di Guy Ritchie da quattro soldi” non è promettente. Neanche la premessa: una squadra specializzata nella pulizia delle scene dei crimini trova una valigia piena di soldi e pensa bene di tenersela. Eppure Jon Keeyes, aiutato senz’altro dal cast, è riuscito in qualche modo a trasformare Clean up crew in una divertente parodia dei film “alla Guy Ritchie”, trasformando le loro caratteristiche in elementi comici.
Noah Berlatsky, Chicago Reader
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