Il 25 ottobre la storia incombeva sul discorso di Giorgia Meloni alla camera. La presidente del consiglio italiana ha elogiato la sua “comunità politica” per aver “compiuto sempre passi in avanti, verso una consapevole storicizzazione del novecento”. Ha dichiarato di aver “conosciuto giovanissima il profumo della libertà, l’ansia per la verità storica”, “proprio militando nella destra democratica italiana”. Ma di che “storicizzazione” stiamo parlando? Una critica nei confronti del passato? O semplicemente l’allontanamento dal presente degli antichi demoni? La differenza era già emersa nel 2008 durante la manifestazione politica Atreju, organizzata dai giovani militanti di destra. Il leader di Alleanza nazionale, Gianfranco Fini, disse che la destra doveva avere valori antifascisti propri; quando fu fischiato dai militanti, l’allora ministra della gioventù Meloni pubblicò una lettera che proclamava: “Basta con questa storia del fascismo e dell’antifascismo”. I militanti di destra, “nati a ridosso degli anni ottanta e novanta” non potevano essere intrappolati in “uno spazio angusto di quasi cento anni or sono”. Non sorprende quindi che, da presidente del consiglio, Meloni abbia ignorato il centenario della marcia su Roma. Ha negato ogni legame con quella storia, dicendo: “Non ho mai provato simpatia o vicinanza nei confronti dei regimi antidemocratici”, compreso quello fascista. E considera le “leggi razziali del 1938 il punto più basso della storia italiana”. Anche se in anni recenti ha elogiato gerarchi dell’epoca del regime come Italo Balbo.
Ma il discorso di Meloni alla camera non riguardava il fascismo né tanto meno la resistenza, bensì il Movimento sociale italiano (Msi) del dopoguerra, da lei ribattezzato “destra democratica italiana”. Questo partito, ha sostenuto, ha “sempre agito alla luce del sole”, “anche negli anni più bui della criminalizzazione”. Nello spirito dell’“ansia per la verità storica”, ci saremmo aspettati che Meloni facesse i conti con il passato: un accenno alla “criminalizzazione” seguita all’uccisione di un poliziotto durante il cosiddetto giovedì nero di Milano del 1973, o allo stragismo dei neofascisti non iscritti all’Msi che fecero esplodere le bombe di piazza Fontana e della stazione centrale di Bologna. Questi fatti non sono stati citati. L’Msi non è stato presentato come il partito dei reduci di Salò. Né Meloni ha accennato al fatto che il leader di quel partito, Giorgio Almirante, si sia incontrato con il latitante Stefano Delle Chiaie, e che abbia beneficiato dell’amnistia, evitando condanne quando fu rinviato a giudizio per aver coperto il ruolo di un segretario locale dell’Msi nell’attentato di Peteano. Secondo Meloni la “destra democratica italiana” sarebbe stata vittima di un antifascismo oppressivo, “quando, nel nome dell’antifascismo militante, ragazzi innocenti venivano uccisi a colpi di chiave inglese”. Parlava di Sergio Ramelli, giovane dell’Msi ucciso a Milano dai militanti di Avanguardia operaia nel 1975, la cui morte viene citata come prova dell’innocenza dell’intero Msi.
Il discorso della presidente del consiglio non riguardava il fascismo, né la resistenza, ma il Movimento sociale italiano (Msi) , da lei ribattezzato “destra democratica”
Molti dei postfascisti della generazione di Meloni, troppo giovani per aver vissuto gli anni di piombo, condividono la visione dell’Msi come minoranza vittimizzata. Quando nel 1994 Alleanza nazionale entrò al governo, Fini disse alla Stampa che “i saluti romani erano per noi la manifestazione di un’identità che gli altri volevano reprimere”. Ma l’intervento di Meloni è stato ancora meno “storicizzante” di quello di Fini. Più che giustificare l’Msi, ha cancellato il fascismo dalla sua storia. Ha spuntato la casella del ripudio dell’estremismo, citando le leggi razziali. E ha detto che la “destra democratica italiana” ha sempre cercato una “pacificazione nazionale”.
Già con Almirante l’Msi prese le distanze dalle leggi razziali e promosse misure autoritarie per stroncare la violenza politica. Tuttavia, anche quando parlava di pacificazione, perfino dopo essere entrato nelle istituzioni, Almirante difendeva le origini fasciste. È emblematica la visita di Marco Pannella al congresso dell’Msi del 1982, la prima di un dirigente di un partito antifascista. Il radicale Pannella sostenne che il fascismo non era nell’Msi ma nella Democrazia cristiana. Almirante obiettò: “Il fascismo è qui”. Aggiungendo “il fascismo come libertà”, come “movimento”, come “la sola opposizione” al “regime” antifascista. Secondo Almirante il fascismo era una tradizione politica viva. La pacificazione doveva basarsi sul riconoscimento reciproco tra fascisti e antifascisti.
La verità storica di Meloni, basata sull’attacco all’antifascismo come antistorico, cancella tutto ciò. Dopo l’attentato di Luca Traini a Macerata nel 2018, Meloni negò perfino che Forza nuova e CasaPound fossero “xenofobe”, perché un’affermazione del genere poteva tornare utile solo all’ideologia antifascista. Dall’insistenza della repubblica italiana sull’agire affinché il fascismo non torni mai più, siamo passati a dire che i fascisti non potrebbero mai più esistere. ◆ ff
Questo articolo è stato scritto per Internazionale.
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Questo articolo è uscito sul numero 1485 di Internazionale, a pagina 44. Compra questo numero | Abbonati