Forse è urgente dire basta. Forse bisogna fare di questo 2023 non un pin buono per ritirare al bancomat spiccioli miserabili di futuro, ma la data oltre la quale o tutto cambia in meglio per l’intero genere umano oppure puntini puntini. Puntini puntini? Sì. Perché le parole dell’ultimatum non le sappiamo dire. Con quelle di cui siamo capaci riusciamo a comporre solo un chiacchiericcio che lascia il tempo che trova o al massimo induce a piccole caritatevoli modifiche. Invece è il momento di forzare la nostra sensibilità e immedesimarci negli ottocentotrentamilioni di esseri umani malnutriti sparsi per il pianeta, testimoni d’accusa incontrovertibili contro l’ordine di affamatori e devastatori dentro cui trascorriamo la vita, a est come a ovest, mugugnando. A quel numero di affamati dobbiamo aggiungere gli umiliati, gli offesi, i torturati, i massacrati, i bombardati, i disastrati, gli schiavi e i quasi schiavi, gli sfruttati, soprattutto le imprigionate dentro il genere grammaticale maschile anche se affollano più dei maschi, e proprio a causa dei maschi, i recinti della sofferenza. Perfino il pianeta è stufo di questo andazzo e sopporta sempre meno gli effetti dell’ordine turpe che una percentuale tanto potente quanto esigua di genere umano spaccia pensosamente per l’unico possibile. Niente auguri dunque per il 2023. Via i puntini invece, non se ne può più.

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Questo articolo è uscito sul numero 1493 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati